Libri, recensioni 8 Dicembre 2022

“Le cure domestiche” di Marilynne Robinson, un libro inserito dal “Guardian” nella lista dei cento migliori romanzi di tutti i tempi

“Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”

Livorno 8 dicembre 2022 –  “Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”

Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.

Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.

Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere Le cure domestiche di Marilynne Robinson

Le cure domestiche di Marilynne Robinson è stato inserito di recente dal “Guardian” nella lista dei cento migliori romanzi di tutti i tempi. Scritta a quasi quarant’anni, è l’opera prima della narratrice americana.

Non è facile decifrare le ragioni per cui questo libro della Robinson ti entra dentro. Ci si sente lentamente fagocitati in un mondo “a parte”, dove pensieri e azioni sono governati da regole singolari. Sono quelle tacitamente scelte nella convivenza tra Ruth e sua zia Sylvie. A volte la Robinson non sembra neanche una scrittrice a stelle e strisce. Il suo stile non è secco e nervoso, si espande come un fluido. Le riflessioni dell’io narrante (Ruth) sono profonde, mai espresse con banalità. Spesso ci si misura con acrobazie metaforiche, con improvvise cabrate poetiche che lasciano un nodo finale enigmatico e insondabile.

Le “cure domestiche” del titolo latitano per gran parte della storia; riappaiono nel finale come un ultimo, disperato e incompiuto tentativo di salvare uno strano nucleo familiare. Questo è formato da una zia e da una nipote, in poco tempo si è solidificato come roccia e non tollera le intrusioni della società. Lo si vuole infrangere proprio perché quella cura, quell’educazione non corrispondono affatto ai canoni che i ben pensanti si attendono.

Ruth racconta la sua infanzia, trascorsa insieme alla sorella Lucille nella cittadina di Fingerbone nell’Idaho. È collocata sulle rive di un lago che nella stagione delle piogge tracima puntualmente inondando tutte le case. Non c’è nulla di arcadico, di idilliaco nella descrizione di questo paesaggio; c’è uno strano, indolente senso di aspettazione. Il lago gela ogni inverno, le montagne incombono silenziose. Paiono commiserare con indifferenza questa comunità di uomini e donne «afflitta dalla consapevolezza che tutta la storia umana si era svolta altrove».

Le due bambine sono state affidate a una sorella della madre, morta suicida anni prima, quando viene meno anche la nonna materna che le aveva cresciute. La zia Sylvie, richiamata dopo sedici anni di assenza da non si sa dove, non è esattamente Mary Poppins. Non si occupa di nulla, non pensa a trovarsi un lavoro. Vive come uno spettro spensierato un suo «presente millenario». La sua malinconia è altrettanto misteriosa del suo buon umore. Tratta le nipoti con trasognata benevolenza. Se crede di dover essere la loro tutrice, interpreta il ruolo blandamente, con manica troppo larga. Assolve il loro continuo marinare la scuola. Fa loro compagnia, cucina, giocano insieme a monopoli. Sembra una naufraga a cui, diversamente dall’irrequieto Robinson di Daniel De Foe, la sua isola deserta va benissimo. Quanto alla casa, come dice Ruth, le cure domestiche della zia sembrano «prepararla per le vespe, i pipistrelli e le rondini».

In questo clima di beato fatalismo, la sola cosa che accade è che le due sorelle crescono; cercano di afferrare il mondo con le prime, timide zampate. Iniziano anche a farsi domande su questa strana zia. Sospettano non abbia tutte le rotelle a posto. Si sentono solo parte di un suo sogno sibillino. Temono possa avere nel sangue quella vena di follia che ha strappato loro una madre quando avevano pochi anni. Ormai il ricordo di quel volto è sbiadito, vi si è sovrapposto quello presente di Sylvie, che alla sorella morta somiglia in modo impressionante.

Il ricordo di Ruth attinge a piene mani dalla scrittura della Robinson, raffinata e contemplativa. Il tono rimbalza dal voluto grigiore con cui è descritto il passare dei giorni a improvvisi guizzi di autoconsapevolezza visionaria. Retrospettivamente si sofferma a decifrare i brevi, inquieti silenzi di quell’infanzia e li giudica una prova di inesistenza, di languida stagnazione. Rammenta allora di essere stata, come tutti forse a Fingerbone, in balia degli elementi. Il vento che penetra ovunque nelle case. I rumori allarmanti del ghiaccio che si crepa nel lago ai primi tepori primaverili. Gli stivali pronti accanto al letto qualora l’acqua allaghi il pavimento. «Privata di ogni prospettiva e orizzonte, mi ritrovai ridotta a un’intuizione».

Sylvie lascia le nipoti libere di compiere qualunque infrazione al comportamento che ci si attenderebbe da due ragazze di buona famiglia. Le sorelle vivono una fase di vagabondaggio nella natura sovranamente indifferente e a tratti inquietante dei dintorni di Fingerbone.

La zia Sylvie vive come se la sua prima vita sia stata archiviata, cancellata per sempre. La seconda, che a causa delle nipoti le è stata concessa, è libera da obblighi, principi morali, pulsioni costruttive. Tutto quanto la interessa è accompagnare col corpo piedi errabondi, che a loro volta seguono un’anima oltremodo libertaria.

La crescita anarchica di Ruth e Lucille, senza una vera guida parentale, avvia un apprendistato separato degli istinti femminili che finirà per dividerle sempre più. Come donna Lucille cresce molto più rapidamente di Ruth, benché sia più bassa e più giovane di un anno. Cerca di uscire dall’isolamento, di farsi delle amiche. Si sente sempre più ostile verso una zia che vede così inerte, priva di iniziative. Cerca di portare la sorella sulle proprie posizioni, invano. Le rimprovera di somigliare a Sylvie, come se ciò fosse un delitto, un tradimento. Le confessa che appena possibile andrà via da Fingerbone. Una notte non rincasa. Si è trasferita da una vecchia insegnante, lasciando Ruth e Sylvie sole.

La nuova situazione cementa la relazione tra zia e nipote. Più che attraverso le parole, la loro comunicazione passa per la comune esperienza di vagabondaggi apparentemente insensati e rischiosi. Ruth percepisce in Sylvie la mano tutelare di sua madre annegata e le si affida ciecamente.

Non potranno godere a lungo di questa intimità disordinata e pedagogicamente eversiva, le autorità interferiranno per separarle. La bigotta, la filistea Fingerbone ha occhi e orecchie dappertutto. L’imminenza di un’udienza dall’esito scontato presso il giudice tutelare le costringe a fuggire dopo un clamoroso autodafé che non lascia più alcuna traccia di loro. Perché mani sconosciute non infanghino la frugalità della loro vita semplice; non profanino le loro misere cose, dotate di un invisibile valore sentimentale, memori di dolori dimenticati e di sogni irrealizzati.

Le cure domestiche di Marilynne Robinson è un romanzo interamente declinato al femminile. È per questo che ogni tanto si aprono abissi di un mondo sotterraneo, fortemente simbolico, che si rivela sotto forma di lunghe parentesi oniriche, oracolari. Tutte le protagoniste maturano prima o poi il desiderio di scappare via da quel luogo dimenticato da Dio che è Fingerbone, Idaho. È anche un romanzo sulla dolorosa vanità della memoria familiare. Sull’inutile sforzo di edulcorazione, di fusione dei nostri pensieri con quelli di persone care che sono venute a mancare o si sono allontanate definitivamente.

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