Libri, recensioni 23 Febbraio 2025

Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “La Vegetariana” di Han Kang

Han Kang, La vegetarianaLivorno 23 febbraio 2025 – “Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”

Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.

Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.

Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “La vegetariana” di Han Kang

 

Tra le più giovani scrittrici in assoluto a vincere il Nobel pochi giorni fa, la sudcoreana Han Kang era poco più che trentacinquenne quando nel 2007 uscì La vegetariana (tradotto da Adelphi nel 2016). Ho apprezzato questo romanzo, che parte in sordina, poi cresce nel suo dramma.

Partiamo dalla forma. Il romanzo di Han Kang sembra collocato a cavallo di due culture. La struttura è tripartita, il che mi ha ricordato (peraltro) Tre piani di Eshkol Nevo. Ciascuna delle tre sezioni ripropone uno stesso contesto da tre diversi punti di osservazione e in tre fasi temporali successive. Anche lo stile narrativo cambia. Il primo punto di vista è del marito della “vegetariana”, il secondo di suo cognato, il terzo della sorella In-hye, moglie di quest’ultimo. L’Oriente fa capolino in una sorta di “grammatica del presentimento” che si respira dalla prima all’ultima pagina del libro.

L’inizio della seconda parte è spiazzante. Solo dopo diverse pagine si comprende che c’è un collegamento con la prima. Il tempo di presentare il personaggio del “cognato”, un film maker che, contrariamente al marito della vegetariana, prova un’attrazione fatale per sua cognata. Sono trascorsi due anni dai fatti descritti in precedenza. La Kang si prende la briga di raccontarceli. Lo stesso farà tra la seconda e la terza parte.

Non inganni il titolo salutista, si tratta di un pietoso eufemismo. La storia è drammatica, inquietante, un inferno interiore di paure, desideri e istinti inespressi schiude ogni tanto i suoi abissi sulfurei nella routine di persone dal comportamento per il resto “normale”. Tutto ciò è tipico delle società del Sol Levante dove il culto della dignità e del contegno è assoluto: per quanto possibile, bisogna nascondere l’impresentabile che è in noi sotto apparenze che devono restare inappuntabili. Il disagio mentale, la vacuità dell’istituzione matrimoniale, un eros morboso, l’impotenza dinanzi all’inevitabile sono gli ingredienti principali di un testo che col trascorrere delle pagine si fa sempre più struggente, ma anche angosciante.

Cheong, io narrante della prima parte, è un uomo insignificante, con la pancetta, le gambe sottili e il pene piccolo. Così si descrive. Una specie di Peter Griffin, ma senza la simpatia e l’autoironia del personaggio dei fumetti. Da cinque anni è sposato con Yeong-hye, che definisce una “donna ordinaria”.

Una notte, Yeong-hye svuota con furia frigorifero e freezer di tutta la carne e di tutti i prodotti di derivazione animale per gettarli via. Quando il marito, assonnato ed esterrefatto, le chiede il perché di quell’azione sconsiderata, lei risponde che ha “fatto un sogno”.

Di tanto in tanto l’autrice apre uno scorcio sui sogni di Yeong-hye: brevi incisi nel racconto in prima persona di Cheong. Sono incubi spaventosi, truculenti, grondanti di sangue. Yeong-hye non è mai stata particolarmente attratta dal sesso coniugale, ma ora si rifiuta categoricamente di concedersi, sia pure con la sporadicità passata. La spiegazione? Il corpo di suo marito puzza di carne e lei non può più mangiarne né sentirne l’odore. Ha dei conati di vomito al solo pensiero.

Fin dall’inizio, il biasimo generale per la scelta di Yeong-hye, prima manifestato stancamente dal marito, poi con maggior determinazione dalla famiglia della stessa Yeong-hye, rivela un portato simbolico. Si è creato un solco, come tra un’appestata e la sua cerchia abituale. Quando la vegetariana viene dimessa dall’ospedale, il marito è terrorizzato alla sola idea di «tornare a vivere con quella donna strana e spaventosa, noi due da soli nella stessa casa». Non si interroga su cosa stia accadendo alla moglie, con cui bene o male convive da cinque anni, si ferma a una sensazione prepotente ma epidermica di estraneità. Questo l’antefatto, il contenuto della prima parte del romanzo. Le vicissitudini della “vegetariana” non finiscono qui. La attende un calvario di cui è difficile immaginare l’epilogo, pensando a come tutto è iniziato.

Siamo nella modernissima Seoul agli inizi del terzo Millennio, eppure il trauma di Yeong-hye resta incompreso, non ci si sforza di indagarne le cause, si ritiene di dover curare il male con il male stesso. C’è qualcosa di straniante, di kafkiano nell’atmosfera di questa parte del romanzo. A nessuno viene in mente di consultare un medico, non c’è empatia, neanche un briciolo compassione per il malessere della povera Yeong-hye. Non si ha la minima idea di dove tutto ciò la condurrà. Una spessa parete di cristallo la separa dal resto del mondo: potrebbe urlare e nessuno la sentirebbe. Perfino il suo gesto estremo viene trattato come qualcosa da rimuovere dalla memoria, contando sulle facoltà taumaturgiche del tempo che passa.

Qual è la percezione interiore dell’infelice Yeong-hye? Un giorno, finalmente, comprende o, almeno, crede di comprendere. È la troppa carne che ha mangiato in passato. Le vite degli animali che ha divorato sono tutte lì. Anche se i resti fisici sono stati espulsi con le deiezioni del suo corpo, «quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere». Non sarà sufficiente astenersi dalla carne per sciogliere quel groppo, che pesca assai più in profondità nella psiche della protagonista e la espone alla sorte senza scampo che, giorno dopo giorno, ricovero dopo ricovero, attende tutti coloro che sono bollati come folli, oggi come secoli fa.

La vegetariana è una storia tutta al femminile. Non sulla condizione, sulla psiche femminile. I personaggi maschili, dopo aver detto la loro nelle prime due parti, dopo aver fatto danni irreparabili, spariscono senza lasciare traccia. Rimangono, sole, le due sorelle. La solitudine della primogenita, della lucida In-hye è incomparabilmente più tremenda di quella della fragile, psicolabile Yeong-hye. L’una si lascia inabissare in un interminabile cunicolo di apatia, l’altra tenta disperatamente di contrastare l’irreparabile. «Che cosa cova dentro di lei, inaccessibile all’immaginazione di sua sorella?»

Credo che questo romanzo farà vibrare molto più in profondità le corde di una donna piuttosto che quelle di un uomo, per quanto sensibile, attento, empatico. Non tanto per i meriti letterari, quanto per la sua capacità di parlare a una sensibilità femminile, di suscitarne le emozioni, di smuoverne le viscere. Di conseguenza, una donna vi troverà dei valori che un uomo non potrà apprezzare con la stessa intensità. Un uomo troverà semplicemente tragico ciò che a una donna apparirà illuminante, epifanico, imperdibile.

Se Han Kang ha una qualità, è di saper creare suspense dal nulla, facendo balenare la luce sinistra di un torbido inconscio nella vita di tutti i giorni. Ciò è più frequente nella prima parte del romanzo. La seconda trova la porta dell’inconscio spalancata, perché il dramma di Yeong-hye ha ormai oltrepassato il suo punto di non ritorno.

Per alcuni suoi aspetti, La vegetariana può essere ricondotto al genere del romanzo allegorico, come La peste di Camus, 1984 di Orwell o Cecità di Saramago. Qui l’allegoria è la battaglia solitaria della donna. La vegetariana non ha il pathos, la tensione etica, la visionarietà dei tre capolavori sopra citati, certo non in quella misura. Ha altre qualità. È un thriller senza criminali. Qui i delitti sono collettivi: l’egoismo, la disattenzione, l’indifferenza per l’unicità altrui, l’atteggiamento vanamente autoconsolatorio per la propria.

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