Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Nero, storie mai raccontate” di Amat Levin
Livorno 23 dicembre 2025 Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Nero, storie mai raccontate” di Amat Levin
“Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.
Che cos’è davvero l’Africa per noi europei? Che cosa rappresenta nel nostro immaginario collettivo? Non sono risposte che troveremo in Nero. Storie mai raccontate dal continente della diaspora. Per l’Africa degli stereotipi, dei safari, dei regni favolosi, degli uomini blu c’è un’ampia bibliografia creata non solo dagli esploratori alla Livingstone o alla Bottego, non sempre studiosi disinteressati, ma anche da grandi scrittori, come Conrad, Hemingway o la Blixen.
Ma è quella la vera Africa? Il merito principale di questo volume, tradotto e pubblicato quest’anno dall’editore Neri Pozza, la ragione per cui vale la pena leggerlo stanno proprio nell’ignorare del tutto l’Africa da libro d’avventure, nel tentativo di raccontarci quella “storicamente accertata”, sia pure grazie a fonti incomparabilmente inferiori rispetto quelle che hanno posto le basi della saggistica europea.
«Le diverse culture di cui vi racconterò hanno in realtà un denominatore comune: l’essere state storicamente considerate insignificanti proprio perché riguardano persone nere», scrive Amat Levin nella sua introduzione. Lo scrittore svedese di origini gambiane chiarisce qual è il suo obiettivo: rendere note “storie ignorate”, facendo luce su una regione immensa, troppo a lungo trascurata dagli studi storici.
Nero non è un manuale di storia dell’Africa, che richiederebbe dimensioni enciclopediche. Contiene però elementi per rintracciare, mappare all’ingrosso questa grande, multiforme, plurimillenaria vicenda umana. Esiste un’importante storiografia di matrice africana sviluppatasi dalla seconda metà del secolo scorso, perlopiù specializzata su aspetti specifici, come la storia di un singolo popolo, il fenomeno della schiavitù, oppure alcune rivolte o guerre tra popoli confinanti.
Del resto, il concetto stesso di Africa (non geografico, semmai etnico e culturale) è ancora discusso.
Il titolo Nero è palesemente indicativo
di quali popoli, di quali vicende Levin vuole parlare. Per troppo tempo gli storici occidentali hanno ritenuto che il continente africano, con l’eccezione degli Egizi e dell’espansione mediterranea degli Arabi (che non erano africani), non disponesse di una storia meritevole di essere studiata come lo era quella del continente euroasiatico e, in seguito, perfino delle Americhe precolombiane.
Nero segue un ordine solo tendenzialmente cronologico. È diviso in quattro parti: “Un lontano passato da non dimenticare”; “L’inizio della tratta atlantica degli schiavi”; “L’abolizione della schiavitù e l’affermazione del colonialismo”; “L’ardua conquista della libertà”. Le ultime tre parti, focalizzandosi sulla tratta degli schiavi, sul colonialismo e sul postcolonialismo, tre fasi della funesta influenza europea sull’Africa, dell’infinita scia di morte che vi ha portato e dalla quale il Continente nero non si è ancora ripreso, perché nuovi padroni (Cina, India) si affacciano in uno scenario neocoloniale sfruttando l’enorme gap tecnologico e la secolare, endemica corruzione delle classi dirigenti locali, mentre sulle coste libiche è inopinatamente ripresa, su nuove basi, l’antica tratta dei neri.
I capitoli di Nero sono simili a schede, ciascuna delle quali presenta una vicenda storico-geografica, oppure un singolo personaggio politicamente rilevante o capace di suscitare scalpore ai suoi tempi, con una quantità di notizie del tutto ignote alle nostre latitudini, corredata da note di approfondimento bibliografico. La corposità di questi riferimenti documentali tradisce l’impegno e la vastità del lavoro storiografico dell’autore, che deve giocoforza poggiarsi, non solo sulle scarse fonti a disposizione, ma anche sui contributi offerti da altre scienze, come l’archeologia, l’antropologia culturale e la linguistica.
Perché l’Africa è definito da Levin “il continente della diaspora”? Non basterebbero la tratta atlantica degli schiavi o quella meno documentata, ma altrettanto estesa, perpetrata per un millennio dai musulmani, entrambe diaspore coatte, né la loro versione contemporanea e non meno drammatica, su basi volontarie per fuggire da carestie e guerre, a esaurire tale definizione.
La prima grande diaspora dell’umanità fu quella dell’Homo Sapiens africano che, attraversando l’istmo di Suez, colonizzò il continente eurasiatico scalzandovi altre specie di Homo. Amat Levin ci ricorda inoltre che, già alla fine del III secolo a.C., ebbe inizio una delle maggiori migrazioni della storia: l’espansione dei Bantu da Sud verso l’area oggi rappresentata dalla Nigeria e dal Camerun. È stata proprio la ricerca filologica a dimostrare questa immane transumanza, grazie alla presenza sparsa nel continente di alcune centinaia di lingue di ceppo bantu, tra cui lo swahili e lo zulu.
L’autore ritiene essenziale dover includere nella storia africana anche quella della sua diaspora. Sono quindi frequenti i capitoli dedicati a personaggi famosi, da Emmett Till a Angela Davis, a rivolte scoppiate nelle Americhe, dai secoli della tratta fino a tempi recenti, comunque riconducibili alla discendenza nera.
Nell’excursus storico proposto da Levin, c’è una cesura che corrisponde all’espansione dell’Islam, prima nel Nordafrica, poi attraverso i mercanti arabi anche a sud del Sahara. Fino a quella fase storica, i conflitti africani erano stati soprattutto “interni”, tra regni o imperi limitrofi. Successivamente, con la caduta di Costantinopoli, la chiusura della via della seta costrinse le monarchie europee (in primis il Portogallo) a cercare nuove rotte verso l’Oriente navigando lungo le coste africane.
La scoperta dell’America impresse una crescita esponenziale al fenomeno della schiavitù africana (peraltro endemica nel Continente prima ancora dell’arrivo di arabi ed europei) a causa della dilagante richiesta di manodopera nelle Americhe. Gli indios morivano come mosche per le malattie importate dagli europei mentre le popolazioni africane, maggiormente integrate a causa dei traffici millenari con l’Eurasia, erano più resistenti e predisposte al lavoro coatto.
Uno dei temi che Amat Levin tratta en passant nella sua rivisitazione storica è il cosiddetto afrocentrismo, opposto all’eurocentrismo, una corrente storiografica che ha tentato di restituire dignità alla storia dell’Africa, non solo rievocando l’epoca dei suoi imperi autocostituiti, ma anche con ipotesi difficilmente dimostrabili, per esempio che gli antichi Egizi fossero neri, che la Grecia abbia mutuato la propria filosofia dalla cultura egizia, addirittura che una spedizione partita dal Mali abbia raggiunto con semplici canoe le coste del Messico e interagito con la cultura olmeca, come dimostrerebbero alcune statue gigantesche con fattezze camitiche.
Levin non si riconosce in tale tendenza, tuttavia stigmatizza la storiografia più critica dell’afrocentrismo perché ha attaccato i sostenitori più isolati e sensazionalisti di tale movimento anziché esaminare le argomentazioni complessive di tale corrente. Constata che l’afrocentrismo resta un fenomeno ancora marginale, mentre la visione eurocentrica della storia nera «ha lasciato tracce profonde anche nella storiografia africana».
La quarta e ultima parte parla dei tentativi di risollevarsi, non sempre riusciti, dei popoli dell’Africa nera. Amat Levin ha comunque parole di speranza: «Dopo centinaia di anni di schiavitù e un devastante periodo di colonizzazione e segregazione, l’Africa nera e la sua diaspora dovettero affrontare una nuova era: nuovi tiranni, rovinose guerre civili e discriminazioni incredibili, ma anche operatori culturali rivoluzionari, icone del femminismo e straordinari protagonisti del cambiamento».
