Analisi su Camp Darby e Nato da parte di Rifondazione
“Il dibattito sul potenziamento di Camp Darby si è concentrato, fino ad oggi, su due principali ordini di considerazioni.
Il primo relativo al pericolo connesso al trasporto ed allo stoccaggio di armi, il secondo connesso al danno ambientale conseguente la realizzazione delle nuove infrastrutture, per le quali si è stato appena aggiudicato il bando.
E’ fondamentale prendere in analisi l’aspetto strategico, e di conseguenza la ragione politica, dietro questa operazione; anche se facendo ciò si può arrivare a posizioni anche lontane da quelle espresse nella sua intervista. Il principale ambito di relazioni da tener presente è sicuramente quello della NATO, di cui l’Italia è membro fondatore (e non per suo merito, tra l’altro).
Per prima cosa, la NATO rappresenta in realtà solo la struttura militare integrata di quello che viene chiamato “Patto Atlantico” che è sostanzialmente un accordo politico di mutua difesa e una dichiarazione d’intenti e comune volontà. Tanto che la Francia gollista, pur non denunciando mai il trattato, sottrasse ad esempio le proprie forze armate dalla struttura militare integrata dell’Alleanza fin dall’inizio della V Repubblica. Questa distinzione è importante perché consente di affrontare la questione senza dover ricorrere a pretestuosità ideologiche o di antiamericanismo preconcetto.
Indubbiamente, finché è esistito nella percezione dell’Europa Occidentale il timore di aggressione da parte del Patto di Varsavia. questo faceva sì che gli interessi nazionali dei singoli membri coincidessero, in tutto o in parte, con quelli degli Stati Uniti, nella misura in cui gli americani avevano interesse ad un’Europa non comunista.
Come è possibile dimostrare questa aderenza d’interessi? Senza dover analizzare una ad una le dottrine d’impiego della forza che si sono susseguite a partire dall’inizio degli anni ’50, il meccanismo d’ingaggio delle forze NATO non è sostanzialmente mutato nel corso dei decenni della guerra fredda.
Questo meccanismo consisteva in una massiccia concentrazione di truppe a difesa della cortina di ferro, e nell’ombrello nucleare americano. Affinché la garanzia di quest’ultimo fosse percepita come reale dagli alleati, diverse decine di migliaia di soldati americani stazionavano nei paesi membri, più come ostaggi che come reali difensori in caso di invasione.
L’Europa Occidentale non poteva infatti garantire la profondità strategica sulla quale l’Unione Sovietica poteva fare affidamento, di conseguenza l’unica assicurazione contro un intervento con armi convenzionali del Patto di Varsavia era rappresentata dall’impiego dell’arsenale nucleare americano, da qui la necessità brutale di averne il certo impiego con morti americani sul terreno in caso di conflitto. Gli stessi modelli di difesa dei paesi alleati rispondevano a questo tipo di minaccia.
Nel caso italiano, più di 1/3 dell’esercito era schierato a nord est e organizzato in divisioni e brigate corazzate, mentre aeronautica e marina erano considerate relativamente marginali in quel contesto – nonostante l’estensione latitudinale del nostro paese e la sua centralità nel Mediterraneo. Era stata infatti la Francia a volere fortemente l’Italia nell’Alleanza Atlantica.
La Francia, avendo una sponda mediterranea e cercando un contrappeso politico, si fece il nostro miglior sponsor, non facendo mutare per questo lo scacchiere principale di confronto. Questi elementi fanno subito emergere come solo una parte dell’interesse nazionale italiano fosse in prima battuta corrispondente a quello americano o della NATO. Certamente, il contesto bipolare della seconda metà del XX secolo aveva modificato molti fattori nella stessa definizione politica di interesse nazionale, almeno nel nostro paese.
Per un’economia di grandi dimensioni ed in contesto globale, quale quella italia, la definizione di interesse nazionale possa spaziare ovunque nel mondo, ma questo è fuorviante. L’interesse nazionale italiano è saldamente ancorato al Mediterraneo e non passa per il Mar Baltico o le montagne dell’Hindukush; occorre però una seria riflessione nazionale su quali siano i mezzi adatti allo scopo e perseguirli, non certo essere corresponsabili dei massacri altrui consentendo il potenziamento di un’infrastruttura di morte su comando altrui come Camp Darby”.
Francesco Renda
Segretario Federazione Livornese Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea