Politica 20 Agosto 2017

BL: Diseguaglianza, una scelta politica figlia del PIL

Buongiorno Livorno: Diseguaglianza, una scelta politica figlia del PIL

 

“Per quanto riguarda l’uguaglianza, questa parola non dev’essere intesa nel senso che il grado di potere e ricchezza debba essere esattamente lo stesso per tutti… nessun cittadino dovrebbe essere così ricco da poterne comprare un altro e nessuno così povero da essere costretto a vendere se stesso… Non tollerare né i ricchi, né in mendicanti. Queste due condizioni, che sono naturalmente legate tra loro, sono ugualmente fatali per il bene comune.
(Jean Jacques Rousseau, Il Contratto Sociale)

La teoria economica dominante è in profonda crisi, da tempo. In crisi soprattutto perché falsa, prevedendo una crescita strutturale e infinita e una società basata sui consumi. Ma ancora conviene, per mancanza di coraggio e di interesse per il cambiamento, per incapacità e per forme e categorie mentali solidificate. E così anziché contemplare indicatori di benessere (la natura, i tempi e le forme di lavoro e di vita, le relazioni sociali) siamo ancora dominati da indicatori meramente economici e lontani da un modello di società accettabile e minimamente equo. Il PIL sopra ogni cosa. E ogni volta che cresce (così quando crescono gli indici di produzione e dell’occupazione, magari sfruttando nuovi escamotage) viene annunciata la luce in fondo al tunnel.

La crescita del PIL è l’unico obiettivo, per ogni governo e politico che si rispetti. E del resto è coerente e funzionale all’ideologia produttivistica e all’economia del “criceto”: lavorare di più per consumare sempre di più e per perseguire l’accumulazione di merci. Di liberare il criceto, aprendo la gabbia per agevolare il cambiamento, non se ne parli. E del resto, forse anche lasciando aperta la gabbia, non servirebbe. Siamo talmente pervasi dell’ideologia consumista e turbo-capitalista che come criceti completamente addomesticati e passivi anche noi preferiamo essere dentro la gabbia mentale che ci è stata costruita da secoli di colonizzazione dell’immaginario collettivo.

Fa fatica a prendere piede e corpo un’economia basata sulla redistribuzione delle ricchezze e delle risorse che dovrebbe essere ottenuta attraverso la partecipazione alla vita sociale e alla sua organizzazione.
Eppure ce lo stanno dicendo in tutti i modi, esperti, economisti, sociologi, i dati e i fatti.

Associare la crescita del PIL e quindi l’aumento della produttività all’incremento dell’occupazione è falso e ormai privo di fondamento: la terza rivoluzione industriale sta di fatto liquidando il lavoro salariato di massa nelle industrie manifatturiere e dei servizi in primis. Da tempo stiamo assistendo alla rottura del legame fra produttività e occupazione.
Ma i nostri politici e addetti ai lavori – media compresi – continuano a far finta di nulla. Oppure lo sanno benissimo ma non hanno volontà e capacità di invertire la rotta.
Eppure si mostrano ancora più incapaci, inetti o in malafede: mentre esultano per la crescita del PIL o della produttività non danno spiegazioni della crescita della povertà, della precarietà, della diseguaglianza. In Italia in dieci anni di crisi la povertà è raddoppiata. Ce lo dice l’Istat: nel 2016 oltre 4 milioni di persone in povertà assoluta, erano la metà nel 2007. Circa 8 milioni e mezzo invece sarebbero coloro in povertà relativa, vale a dire nella trappola della precarietà: fra questi molti dei cosiddetti working poors, quelli per cui il lavoro non è sufficiente.

Ma sembrano fenomeni da non meritare la massima attenzione, come dimostra il fatto che manchino ancora nel nostro paese soluzioni strutturali e organiche come un reddito di base, preferendo invece aiuti marginali e categoriali, come se le disuguaglianze fossero destini naturali. Mentre sono costruite socialmente e frutto di scelte politiche.
Le disuguaglianze e le povertà in espansione non sono una conseguenza inevitabile e accidentale della crisi economica globale in corso. Sono al contrario elemento costitutivo e strutturale del modello di sviluppo economico e sociale plasmato dal neoliberismo. Come altrimenti spiegare che proprio nell’ultima decade sia aumentata la concentrazione di ricchezza tanto da arrivare, nel mondo, all’ 1 % della popolazione che dispone la metà della ricchezza mondiale? E in Italia, mentre nel 2007 le dieci famiglie più ricche avevano un capitale pari a quello di 3,5 milioni di poveri, oggi hanno un capitale pari a quello di 6 milioni di persone in difficoltà. Tutto questo è frutto delle scelte politiche e dei paradigmi economici che ancora vengono praticati e sbandierati. Vivere in società profondamente diseguali è diventato normale. E non si ha pudore o paura a manifestarlo. Forse perché ci si affida all’ignoranza o alla rassegnazione che avvolgono la maggior parte dei milioni di precari e poveri del nostro paese. Forse perché si ha fede nelle strategie delle grandi distrazioni di massa che favoriscono le lotte e le ostilità con chi sta peggio (migranti, rifugiati e miti dell’invasione e dell’appropriazione indebita delle nostre sicurezze). Si fa di tutto per nascondere le scelte e quindi problemi di allocazione, di redistribuzione e di sistema.
La riscoperta e il recupero dell’idea di eguaglianza potrebbero aiutare il cambiamento e le politiche alternative.”