Livorno 19 luglio 2020 – Oggi 19 luglio 1944 Livorno è libera; un estratto di un racconto storico sugli eventi di quei giorni.
La testimonianza della liberazione di Livorno nel libro “O MIEI COMPAGNI”, Una testimonianza, di Mario Lenzi edito dal Comune di Livorno nella collana T; temi di cultura.
“Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato.
Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato.
Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta.
Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più.
[…] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso.
Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni.
Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato.
Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo. I tedeschi facevano saltare le ultime mine. Ma io non sentivo alcun rumore.
Il fragore di quelle esplosioni era tutto dentro la mia testa. Mi sembrava che con quelle ultime case se ne andasse quello che restava della mia adolescenza, come se un maglio gigantesco avesse frantumato i miei ultimi sogni di vetro.
Entrammo in città con le guide della “Red Bull” e con due pattuglie in tuta mimetica attrezzate in azioni di commando e per individuare le mine.
La linea tedesca stava arretrando verso l’Arno, l’artiglieria americana batteva ormai a monte di Livorno, verso la piana di Stagno, e nella città da tempo abbandonata e deserta erano rimasti solo i gruppi di guastatori e le pattuglie di retroguardia.
Adesso il silenzio era impressionante, si sentiva solo il gracidare della radio portatile dell’operatore americano che comunicava con il comando della “Red Bull”, e le finestre aperte nei muri diroccati erano occhiaie vuote, che gli altri americani tenevano costantemente sotto mira.
Ci inoltrammo in via Roma. Non incontrammo nemmeno un tedesco.
Vedemmo un uomo, un italiano, che camminava in mezzo alla strada fra i detriti e i mattoni spezzati. Appena ci scorse, scivolò via come un’ombra. Forse ci aveva preso per tedeschi.
Dall’Attias, dove quand’ero piccolo c’era l’unico semaforo della città (tanto che credevamo che Attias non fosse il nome di una villa ma un sinonimo di semaforo, e dicevamo “Anche a quest’altro incrocio, prima o poi dovranno mettere un attias”) arrivammo alla piazza Grande, tra cumuli di rovine. L’erba era cresciuta alta in quei mesi di abbandono.
Era la mattina del 17 luglio, un lunedì. La 34ª divisione “Red Bull” avanzava lentamente, con grande cautela, gli americani non permettevano neppure ai partigiani di entrare nella città dei fantasmi, e la data della liberazione, quella che è stata fissata nella storia della città, fu il 19 luglio 1944.
Quel giorno arrivarono il Decimo Distaccamento partigiano, aggregato al reggimento del colonnello Keith, con due bandiere in testa, quella tricolore e quella a stelle e strisce, migliaia di soldati, colonne di carri armati e di camion, i reparti di genio, i servizi logistici e di pronto soccorso, il comandante della Quinta Armata in persona, generale Mark W. Clark, e anche gli operatori per le riprese cinematografiche.