Cronaca 30 Maggio 2017

Olocausto: Il sopravvissuto Mauro Betti racconta la storia in Consiglio Comunale.

Olocausto. Appuntamento con la Storia. Mario Betti invitato per La Giornata Cittadina della Pace racconta la sua storia. “Chi ascolta un superstite dell’Olocausto diventa a sua volta un testimone “.

“Chi ascolta un superstite dell’Olocausto diventa a sua volta un testimone “.

Appuntamento con la Storia.

Il 95 enne Mauro Betti deportato politico triangolo rosso sopravvissuto a 3 campi di sterminio, è stato invitato dal sindaco Filippo Nogarin, in occasione della Giornata Cittadina della Pace, dedicata alla popolazione caduta sotto i bombardamenti della città nel 1943, ha raccontato la sua storia nell’aula del Consiglio Comunale. (foto di copertina)

“Chi ascolta un superstite dell’Olocausto diventa a sua volta un testimone “.

LA STORIA DI MAURO BETTI

L’assessore Belais, Mario Betti (al centro) e Dario Petrucci, a casa di Mauro Betti. Foto di archivio anno 2016

Mauro Betti si arruolò nell’ esercito a l’età di 18 anni, nel 1940: era un radiotelegrafista della Marina Militare Italiana. Venne mandato a Rodi a combattere sul fronte meridionale orientale.

Nel 43 l’ Italia firmò l’armistizio con gli Alleati e gli italiani rimasero lì in balia dei tedeschi. I sopravvissuti vennero catturati e vennero portati in prigione a Zagabria, dove iniziò il periodo più brutto della vita del nostro testimone. Riuscì a scappare dal campo di prigionia in Croazia e mi unìi con i partigiani croati.

Quando i partigiani croati mi videro mi accolsero, ma con diffidenza, perché fino a pochi mesi prima avevano combattuto con gli italiani, che giudicavano tutti fascisti, superata la diffidenza mi inserirono nei loro reparti.

Durante una  operazione di guerra, vennero attaccati all’ improvviso dai Cosacchi, c’ era stata probabilmente una soffiata: i partigiani in svantaggio numerico furono uccisi tutti, e soltanto Mario Betti riuscì a cavarsela e portato al campo come “trofeo di guerra”.

Venni imprigionato e durante questo periodo fu avvicinato da un ufficiale della Repubblica di Salò, questi gli fece la proposta di ritornare subito in Italia come radiotelegrafista con i repubblichini, altrimenti ci sarebbe stata la deportazione in Germania, ma io che di guerra non ne volevo più sapere e che non la volevo certo riprendere dalla parte sbagliata e decisi che preferiva la prigionia.

Il primo campo in cui Betti viene deportato si chiamava Grossenrose, a nord della Polonia nazista. E’ giusto precisare che per ogni campo principale erano presenti altri campi subalterni. Betti era nel principale.

Nei campi venivano deportati, oltre a ebrei, zingari e gente emarginata dalla società, anche prigionieri politici e partigiani di tutte le resistenze: Betti era uno di loro.

Chi entrava dal cancello di quei campi, difficilmente ci usciva. Privati di tutti i loro beni personali, ai prigionieri veniva sottratta anche la propria identità.

Da questo momento loro erano dei numeri, e la loro origine era scritta sopra una targhetta triangolare di diversi colori e con sigle : . IT per Italia e rosso per i deportati politici.

Le condizioni di vita erano disumane, proibitive. In una baracca, che poteva ospitare fino a un massimo di cento persone, ne venivano alloggiate mille e più, in modo che in una brandina ci dormivano cinque persone.

I pasti giornalieri non riuscivano a supportare una dieta sufficiente alla sopravvivenza dei prigionieri, e tanti morivano di stenti.

Il pranzo consisteva in un po’ di “zuppa” (acqua colorata con due o tre rape lesse) e alla sera finissime fettine di pane, con marmellata o burro e, se i tedeschi erano di buon umore, anche con pochi pezzi di salame di pessima qualità.

Ma questo è niente in confronto alle sevizie che gli italiani, i Polacchi, ma soprattutto gli ebrei dovevano subire dai “Kapò”, criminali e senza scrupoli.

Mai avvicinarsi a un “Kapò” ! Appena eri troppo vicino… zac! Lui tirava fuori il suo bastone e senza alcun motivo, senza nessuna spiegazione, picchiava.

La morte in quei campi non faceva più paura, tanti la pensavano come una liberazione dalle sofferenze mortali, e tentavano il suicidio.

Quando qualcuno scappava, e non veniva ripreso, a rimetterci erano i prigionieri che erano restati  li facevano rotolare nella neve.

Mauro Betti conobbe tre campi di sterminio. Il primo fu quello di Grossenrose. Il secondo fu Breslaw, nel quale visse lavorando in una fabbrica bellica impiantata accanto al campo.

Il terzo lager, quello in Germania, fu quello dove conobbe Eugenio Pertini, il fratello di quel Sandro Pertini che sarebbe poi diventato Presidente della Repubblica.

Mentre i Russi sfondavano le linee tedesche e raggiungevano i campi di sterminio, e gli Alleati avanzavano in Italia e Francia, il Signor Betti, in compagnia di molti altri prigionieri come lui e di un folto drappello di soldati tedeschi, veniva trasportato verso i campi più interni del Reich.

Era notte, e una lunga fila di prigionieri era scortata da poche decine di tedeschi armati, a chiudere la fila, un solo soldato tedesco, pronto a giustiziare chiunque fuggisse.

La fila di soldati e prigionieri stava attraversando un punto in cui il sentiero curvava, e Betti si trovava troppo indietro per essere scorto dai soldati davanti, e fin troppo avanti perché i soldati alle sue spalle potessero controllarlo.

Era il momento adatto da cogliere. E Betti, senza troppe preoccupazioni, si gettò dalla scarpata. e  piombò in mezzo ai rovi, graffiandosi il viso e le mani. Non poteva però uscire dai rovi, la paura che qualcuno lo vedesse e lo riportassero tra le fila dei prigionieri lo avrebbe paralizzato per tutta la notte.

La mattina  decise di uscire dal bosco, in cerca di cibarie, trovò una fattoria. Entrò nel fienile e, stremato si riposò su una grande balla di fieno. Alcune ore dopo, però, fu svegliato e cacciato da un  contadino tedesco.

Quando se ne andò, incontrò un francese, prigioniero di guerra, che lavorava per il contadino. Questo gli disse di nascondersi in un covone di paglia all’esterno, promettendogli che gli avrebbe portato del cibo e così fece.

Betti , mentre era nel covone, udì dei rumori di carri armati, mentre pensava con grande speranza che i carri appartenessero agli alleati. I carri poi si allontanarono.

Il francese non tornò, mai ed  Il giorno dopo Betti azzardò un tentativo di tornare nella fattoria, e la trovò disabitata. Evidentemente i carri armati avevano spaventato il contadino tedesco, che era fuggito assieme al prigioniero francese ed ora,  Betti si trovava in una fattoria stracolma di cibo.

Ad un certo punto irruppe nella stanza un uomo con un mitra, gli urlava di alzarsi, il signor Betti intanto diceva “Calma, sono un italiano, sono italiano”. A queste parole l’uomo buttò in terra il mitra e gli andò incontro abbracciandolo: era un italo-americano.

L’alleato lo prese e lo portò al campo base, tutti i soldati lo fissavano e gli volevano dare cibo e sigarette. Il signor Betti rifiutò, molto intelligentemente, le offerte, perché gli anni di prigionia gli avevano ridotto abbondantemente lo stomaco, che non poteva ricevere quantità sostanziose di cibo altrimenti non avrebbe retto.

Non accettò le offerte anche perché voleva andare in ospedale, il soldato che lo aveva salvato gli rispose che aveva già chiamato un ambulanza, e presto si trovò in un ospedale.

Appena i dottori lo videro rimasero assai sorpresi, perché il signor Betti pesava solo 30 kg. Da quel giorno cominciò la sua graduale ripresa. Gradualmente, Mauro Betti iniziò a mangiare e passando i giorni le dosi di cibo aumentavano e ogni domenica veniva pesato, così dopo due settimane da i 30kg che era raggiunse i 70kg.

Ciò che sorprendeva ironicamente il signor Betti era che coloro che lo aiutavano fossero dei tedeschi, proprio come i suoi carcerieri, gli odiati signori del Reich, eppure questo per lui significava che non esistono intere popolazioni malvagie, ma esistono solo persone malvagie, e non si deve perciò generalizzare, accomunando una persona a tutto il suo popolo o a tutti coloro che hanno la stessa nazionalità.

Dopo poco tempo Betti fu dimesso dall’ospedale, ed iniziò, a piedi, il percorso che dal Nord Italia lo avrebbe portato alla sua casa, alla sua famiglia, ad un ritorno vero e proprio alla vita.