PCI sull’emergenza Covid: “Tra cattiva gestione e deriva neoliberista”
Livorno 31 ottobre 2020 – Il Partito Comunista Italiano – nella lunga nota che segue – interviene sulla gestione dell’emergenza covid tra ritardi, distorsioni dovute al sistema capitalistico e linee di progetto per un futuro diverso, meno soggetivista ma più collettivista.
Le recenti manifestazioni di protesta dei commercianti e dei ristoratori che si stanno svolgendo in tutta Italia e nella nostra città in risposta alle restrizioni introdotte per la seconda ondata del corona virus,
fanno emergere tutta la fragilità di un sistema neoliberista
affermatosi con il dissolvimento del blocco socialista, e di un’alternativa reale ad esso.
In questi cinque mesi che ci hanno separato dalla fine del precedente lockdown e in questa seconda ondata del codiv-19, le criticità emerse non sono state affrontate per preparare il paese e i territori a resistere e fronteggiare adeguatamente l’emergenza.
In particolare nel sistema sanitario nazionale, distrutto dai tagli
perpetrati da politiche di centro destra e centro sinistra tese alla sua lenta e inesorabile privatizzazione, non sono stati assunti sufficienti figure professionali per ricoprire le carenze del personale sanitario, non sono stati aumentati sufficientemente i posti letto per le terapie intensive, e per le altre degenze, le RSA sono ancora una volta pericolosi focolai, non sono stati attivati presidi per la medicina territoriale e di vicinanza.
Vi è poi una mancanza di organizzazione generalizzata nella gestione dell’emergenza,
i positivi asintomatici rimangono in quarantena nelle loro abitazioni senza avere nessun servizio alla persona oltre quello sanitario, aspettando giorni per avere un tampone nel caso di contatto diretto, e non vi è nessun controllo sul fatto che la quarantena sia rispettata realmente. Sulla gestione dei tamponi non è tollerabile che per farli con la sanità pubblica vi siano tempi biblici mentre nel privato vi è una riduzione drastica dei tempi di attesa, ovviamente pagando; ci si cura e si fa prevenzione se ce lo si può permettere, questo è un altro effetto della privatizzazione della sanità pubblica.
Quindi ci domandiamo cosa è stato fatto in previsione del ritorno del virus per l’approvvigionamento dei tamponi? Perché non e stato fatto uno screening generalizzato per rilevare gli asintomatici e separarli dagli altri? Perché là dove non sia possibile, per evidenti ragioni di spazi abitativi, non si è pensato a strutture in grado di ospitare i positivi invece di lasciar contagiare intere famiglie?
Cosi come i trasporti pubblici, treni, autobus e scuolabus,
che per larga parte sono stati privatizzati, non sono stati potenziati per permettere una mobilità in sicurezza, aumentandone le unità e riducendone la capacità di trasporto delle persone, per non parlare della scuola e tutte le polemiche sulla sua riapertura, con classi non adeguate per numero di alunni, per mancanza del personale docente e strutture fatiscenti che non hanno avuto nessuna ristrutturazione negli anni, mentre si elargivano fondi pubblici per le scuole paritarie e private.
E mentre sprecavamo il tempo che ci era stato concesso per organizzarci e prepararci alla seconda ondata,
il virus ha ripreso a correre in tutto il mondo, tranne là dove era nato in Cina e nei paesi con un altro tipo di sistema sociale, proprio in quei paesi che nel bel mezzo della pandemia, a differenza dei paesi capitalisti occidentali nostri alleati, ci avevano offerto il loro aiuto inviando medici e forniture sanitarie per affrontare la pandemia, mostrando solidarietà internazionale e cooperazione tra popoli, a differenza dell’egoismo capitalista occidentale che ci sottraeva i mezzi con aste a rialzo sui mercati internazionali.
Allora ci domandiamo perché non abbiamo guardato a quei sistemi per capire come avevano affrontato l’emergenza, con che modalità con quali strumenti e quale tipo di organizzazione avevano messo in campo?
Forse perché avremmo dovuto sovvertire trent’anni di pensiero unico dominante,
idolatrando il mercato come unico fautore di benessere e regolatore dei rapporti umani e di supremazia del privato sul pubblico, che ha talmente condizionato il nostro modo di pensare che attualmente non siamo in grado di disegnare un’alternativa al di fuori di questi rapporti o forse perché avrebbe significato scardinare e distruggere esosi e intollerabili privilegi delle classi dominanti che oggi guidano il paese.
E adesso che siamo in ritardo non rimane che chiudere tutto quello che non è indispensabile all’economia del paese, e vista la stagione delle privatizzazioni avvenuta, significa in altri termini mantenere quegli esosi e intollerabile privilegi che anche durante questa pandemia
hanno accresciuto il proprio profitto a discapito della salute e della sicurezza delle classi lavoratrici
e del ceto medio che si sta sempre più proletarizzando, e che vedono il loro futuro incerto e fatiscente.
In questo contesto le manifestazioni di piazza che sono scoppiate spontaneamente, al di là dei pericoli di infiltrazione camorristica e di atti criminogeni, di personalismi che tentano di dirigerle da una o l’altra parte in veri e propri atti di sciacallaggio, sollevano a gran voce una richiesta che è legittima e condivisibile, la richiesta di poter vivere dignitosamente, la richiesta di pane, la richiesta della presenza di uno stato assente che tutela solo gli interessi di classe di una parte minoritaria della popolazione. E quindi la parola d’ordine che e risuonata maggiormente in queste manifestazioni e che assume un significato personalistico di giustizia sociale “tu ci chiudi tu ci paghi” che porta dentro di sé una serie di rivendicazioni giuste,
nasconde però a nostro avviso ancora quella cultura personalistica soggettiva
che deriva da trent’anni di pensiero unico dominante capitalista, in quanto vi è la richiesta della soddisfazione delle proprie esigenze personali alle criticità esercitate dalla crisi, che sono giuste e alle quali bisogna dare voce ed appoggiarle, perché nell’immediato possano trovare soddisfacimento, da comunisti dobbiamo però impegnarci perché tali rivendicazioni assumano un carattere di classe collettivistico che mutino il quadro complessivo, che rompa con la cultura capitalista imperante che porti con sé la consapevolezza delle proprie forze e delle capacità che risiedono all’interno delle classi sociali che oggi scendono in piazza per rivendicare il proprio posto all’interno di questa società.
Affinché vi sia una reale rottura con il sistema e la cultura che lo sostiene a nostro avviso sembra più consono dire, rispetto a queste riflessioni e al ruolo di avanguardia che deve avere chi si vuol porre alla testa di tali rivendicazioni, che noi pretendiamo tutto perché siamo in grado di fare tutto e farlo meglio di chi oggi ci guida”.