Pietre di inciampo, storia e utilizzo sulle strade della nostra città di una testimonianza da non dimenticare
Nel corso dell'anno ne verranno installate altre sei, in via Strozzi e in via del Mare
Livorno 29 gennaio 2020 – LE “STOLPERSTEINE” (Pietre di inciampo) A LIVORNO
Le stolpersteine sono parte del tessuto urbano di Livorno dal 2012. La Comunità di Sant’Egidio ne ha promosso l’installazione, per ricordare la deportazione di tanti livornesi di religione ebraica, durante il nazi-fascismo.
L’iniziativa si inserisce nelle diverse attività promosse da Sant’Egidio perchè la memoria non sia solo ricordo ma “ pietra di inciampo” nel percorso umano e culturale necessario alla costruzione di una città e di una società, attuale e futura, più umana e giusta.
Per questo, la manifestazione coinvolge le scuole di ogni ordine e grado e i “nuovi cittadini”, ragazzi e lavoratori immigrati (con le loro famiglie), la cui conoscenza della Shoah non è scontata né sempre condivisa. Lezioni di approfondimento e incontri con gli anziani livornesi ebrei, visite alla sinagoga ed altre iniziative, precedono in genere l’impianto delle stolpersteine.
La Comunità, con questa iniziativa, ha voluto inoltre, inserire Livorno nel numero delle città che hanno valorizzato il proprio contesto urbano, sia dal punto di vista culturale che artistico. Alla stregua di Berlino, Praga, Roma, Livorno ha avuto così una risonanza nazionale e internazionale.
Le stolpersteine possono ricordare persone scomparse nei lager e nella persecuzione ma anche persone sopravvissute alla Shoah. Esse sono poste davanti alle case abitate dalle persone ricordate prima della deportazione, oppure presso la loro ultima residenza nota.
In alcuni casi tali abitazioni non esistono più, perché abbattute dai bombardamenti del ’43 o demolite nell’immediato dopoguerra. Le pietre vengono allora poste nel luogo più vicino a quello precedente la guerra.
La ricostruzione topografica e toponomastica viene svolta grazie all’accurata collaborazione tra gli uffici del Comune di Livorno, la Comunità di sant’Egidio, la Comunità Ebraica di Livorno e su segnalazione di amici, conoscenti e parenti delle persone deportate.
Attualmente sono 17 le pietre di inciampo installate: le prime quattro sono state impiantate nel 2013 e dedicate a due bambine ebree Franca Baruch e Perla Beniacar, un ragazzo, Enrico Menasci, e suo padre Raffaello. Altre due sono state impiantate nel 2014 e dedicate a Isacco Bayona e Frida Misul, testimoni dell’orrore della Shoah per almeno due generazioni di studenti livornesi. Le stolpersteine del 2015 sono state dedicate a Dina e Dino Bueno, quelle del 2017 a Ivo Rabà e Nissim Levi, nel 2018 a Matilde Beniacar, ultima sopravvissuta livornese ai campi di sterminio.
STOLPERSTEINE 2020
Quest’anno saranno impiantate nelle strade livornesi sei pietre di inciampo, quattro in via Strozzi e due in via del mare: le prime sono dedicate a Rosa Adut, Abramo Levi e ai loro due figli Mario Mosè e Selma, Nissim il terzo figlio fu ricordato già nel 2017; le altre due sono dedicate a Pera Galletti e a sua figlia Lia Genazzani.
L’omaggio alle stolpersteine di quest’anno sarà preceduto da una tre giorni di incontri e testimonianze, promosse dalla Comunità di Sant’Egidio, nelle scuole primarie e secondarie di I grado: il 27 gennaio alle Scuole Carducci con l’intervento di Laura e Anna Galletti, il 28 gennaio in via Montedoro 13 con le scuole del centro città e a Villa Letizia in via dei pensieri per le scuole della zona sud; al termine degli incontri si svolgeranno cortei silenziosi dai luoghi degli incontri fino alle stolpersteine di via Strozzi e di via del mare. Il 29 gennaio, per le scuole della zona Nord, l’incontro con Edi Bueno, scampata alla deportazione nel ‘43 e Pierluigi Frisini figlia di Lida Basso, insignita dell’alta onoreficenza di giusta tra le nazioni per aver salvato un numeroso gruppo di ebrei francesi che si erano rifugiati nelle campagne pistoiesi. L’incontro, dal titolo: “Chi salva una vita, salva il mondo intero” si svolgerà nell’auditorium Pamela Ognissanti in piazza Saragat alle ore 10.00.
Tutti gli incontri e la manifestazione del 28 gennaio sono promossi dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Comunità Ebraica di Livorno, in collaborazione con il Comune, la Diocesi, la Regione Toscana e l’Istituto Storico della Resistenza.
CENNI SULLA DEPORTAZIONE DEI LIVORNESI EBREI
Tra il dicembre ’43 e il gennaio del ’44, si consuma la deportazione degli ebrei livornesi. Tra loro anche un folto gruppo di famiglie ebree, di origine italiana, fuggite dalla Turchia a seguito dei disordini e dei massacri seguiti alla guerra greco-turca del 1919-1922 oppure, piu tardi, a causa del rimpatrio della popolazione di origine italiana.
Queste famiglie si erano stanziate a Livorno già da diversi anni, probabilmente per antichi legami familiari o materiali con la nostra città. Privi di conoscenza e di radicamento, con pochi mezzi, costoro furono facili prede sia delle leggi razziali che, poi, dei rastrellamenti.
Gli ebrei furono arrestati nelle loro case, per lo più del centro storico, oppure nei luoghi di sfollamento in cui avevano trovato rifugio dopo i bombardamenti disastrosi del maggio e del giugno ’43, tra gli altri Gabbro, Guasticce, la montagna pistoiese.
Gli arresti furono tutti opera di fascisti italiani e solo in alcuni casi in collaborazione con i tedeschi. Infatti, dopo il censimento del ’38 e per lo stretto controllo di polizia cui erano sottoposti, gli ebrei, livornesi da sempre o solo di origine, erano tutti conosciuti ed erano altrettanto note la loro residenza o il loro domicilio.
La contabilità della morte ci dice che furono centinaia gli ebrei livornesi che non tornarono più dalla Germania, secondo studi recenti oltre duecento persone scomparvero nei campi di sterminio insieme ad altri civili livornesi deportati, molti dei quali uccisi in detenzione per essersi opposti con un gesto, una parola alla disumanità dei carnefici.
Selma Levi e la sua famiglia
Selma Levi nasce a Smirne, in Turchia, il 19 giugno del 1924. I genitori Abramo Levi e Rosa Adut, i nonni Angelo Moisè Levi ed Eliàs Malzatov sono anch’essi smirnioti, di religione ebraica.
Nella bella città turca, nasce nel 1927 il secondo figlio di Abramo e Rosa, Mario Moisè. Pochi mesi dopo Rosa è di nuovo incinta ma la famiglia Levi non può esserne felice. La situazione politica del Paese non promette per loro niente di buono.
E’ finita da poco la prima guerra mondiale e tutta la parte orientale del Mediterraneo è in subbuglio. L’impero ottomano, uscito sconfitto dal conflitto, viene smembrato: i territori intorno all’Anatolia settentrionale e alla zona di Istanbul (Siria, Palestina, Transgiordania e Iraq) sono “affidati” al mandato di Francia e Inghilterra, la penisola greca e le isole dell’egeo restano dapprima sotto influenza straniera poi contese tra le nuove entità statali in formazione.
Smirne, dal 1917 “affidata” all’Italia, passa per cinque anni sotto l’amministrazione provvisoria della Grecia mentre si va costituendo come Stato nazionale, indipendente dal nascente Stato turco (guerra greco-turca).
Per la suddivisione dei territori dell’ex Impero, abitati da sempre da una popolazione mista, multietnica e multireligiosa, e il ridisegno dei confini e dei governi, non basta un tratto di matita sulla carta geografica: le popolazioni sono deportate a forza e le minoranze brutalmente perseguitate, per dare uniformità ai nuovi Stati. E’ un esodo biblico: centinaia di migliaia di persone sono “spostate” a costo di violenze ed eccidi.
Anche Smirne paga le conseguenze della guerra e resta contesa tra greci e turchi, a causa dell’importanza del suo porto e della favorevole posizione geografica, strategica per i commerci internazionali.
La città, multietnica e cosmopolita, contava prima della guerra circa 370.000 abitanti di varie culture e religioni: i greci sono 165.000, i turchi turchi 80.000. Altre comunità consistenti sono quella ebraica con 55.000 persone, di cui più di 10.000 sono ebrei livornesi, e quella armena con 40.000 persone.
Nel settembre 1922 i quartieri cristiani ed ebraici di Smirne, quelli più vicini alla costa e al porto vengono incendiati. Con molta probabilità è l’esercito turco ad appiccare il fuoco, casa per casa, per costringere alla fuga la popolazione greca e armena. Anche il quartiere ebraico, limitrofo a quello greco, viene incendiato. Altri dicono sia stato l’esercito greco a passare per le armi “tutti i turchi di Smirne”. Certo è che l’incendio distrugge i due terzi dell’abitato e che le vittime, morte tra le fiamme, massacrate o annegate buttandosi in mare per sfuggire al fuoco e alle armi, sono più di 30.000.
La famiglia Levi, come molte altre, perde tutto, ha paura e parte. Il viaggio avviene con mezzi di fortuna, per mare e poi per terra, lunghi tratti sono fatti a piedi.
Torino è la prima città italiana in cui i Levi si fermano. La comunità ebraica torinese soccorre i profughi, è molto attiva nella solidarietà. Ma i Levi decidono di proseguire, con loro ci sono anche altre famiglie smirniote, dirette a Livorno, dove hanno lontane origini familiari.
A Livorno la famiglia Levi arriva nel 1928 ed è qui che nasce sempre in quell’anno l’ultimo dei figli, Elio. La vita è difficile all’inizio ma poi si adattano e si ricomincia. Rosa, la mamma, apre un piccolo banco al mercato, fa commercio al dettaglio, mentre Abramo, il padre, trova impiego come marmista. I bambini vanno a scuola.
La tranquillità conquistata non dura però a lungo.
Nel 1938 vengono promulgate le leggi razziali. La fitta propaganda antiebraica predica il disprezzo e poi l’odio, che entra nella vita quotidiana e distrugge velocemente la convivenza, peraltro non sempre facile, nelle città italiane. Nel ‘40 l’Italia entra in guerra in un’escalation di violenze e crudeltà inaudite. La rivoluzione tecnologica ha consentito una produzione di armi mai vista prima di allora. Le armi vengono usate intenzionalmente sui civili e con scopo distruttivo totale. La persecuzione della popolazione di religione ebraica, ma anche dei disabili, degli omosessuali, si fa progressivamente crudele e minuziosa, sistematica, fino all’ideazione del programma di eliminazione cruenta.
Ma l’inverno più lungo è quello del ‘43.
Con lo sbarco degli Alleati in Sicilia e l’avanzata nel Sud Italia, dopo la caduta del Fascismo il 25 luglio del 1943, l’ armistizio dell’8 settembre e la costituzione della Repubblica di Salò nel Nord, nella parte di territorio italiano occupato dai Tedeschi, l’Italia diventa teatro di spaventose operazioni di guerra, anche civile. Rastrellamenti, violenze sulla popolazione, eccidi, si susseguono.
Il 5 dicembre del ’43 gli Ebrei sono dichiarati nemici dello Stato. La loro persecuzione diventa sistematica, non c’è luogo in cui sia possibile nascondersi. Migliaia di persone vengono arrestate, concentrate nei campi di Fossoli, San Saba (Trieste) e Bolzano, quindi deportate nei campi di sterminio in Germania.
La persecuzione raggiunge dapprima gli Ebrei stranieri rifugiatisi in Italia oppure rimpatriati negli anni precedenti. Dirà Rosa Adut, negli anni ’80, in un’intervista sull’esperienza vissuta: “Sono sicura che tutti gli Ebrei turchi che erano a Livorno furono deportati, non credo che nessuno sia rimasto fuori dalla lista”.
Ma nessun italiano di religione ebraica è risparmiato dalla fitta operazione di polizia che, sulla base del censimento del ’38, di liste meticolosamente compilate dalle Questure e delle numerose delazioni, insegue gli Ebrei nelle loro case, nei luoghi di sfollamento, ovunque sia ancora possibile rifugiarsi.
La guerra intanto non risparmia le città italiane. Molte delle quali, soprattutto i porti, vengono bombardate.
Per sfuggire ai bombardamenti di Livorno del maggio ’43, la famiglia Levi sfolla a Guasticce in cerca di un rifugio vivendo in condizioni precarie negli annessi agricoli ai lotti dei mezzadri.
Il 18 dicembre 1943 Abramo e Rosa, i loro tre figli e la nonna Elias, di 81 anni vengono improvvisamente arrestati, su delazione.
Tutta la famiglia viene quindi portata a Pisa, in carcere, dove rimangono per cinque mesi, senza ricevere alcuna spiegazione. Poi vengono trasferiti nel campo di smistamento di Fossoli e da lì deportati il 16 maggio 1943, con il convoglio n. 10 di un treno merci, con partenza da Roma e destinazione Aushwitz.
Nello stesso trasporto con i Levi, sono deportati molti altri livornesi: ci sono i Castelli, i Castelletti, i Cava, i Cremisi; ci sono Fanny Di Porto e Angelo Ajò, i Della Riccia e i Finzi; ci sono Ada Attal e il figlio Benito, arrestati alle scuole Carducci di Livorno dove avevano trovato rifugio; ci sono i Ninos e i Franco, c’è Frida Misul.
Ci sono anche molti ebrei romani, tra cui Piero Terracina, Costanza ed Enrichetta Strologo che diventeranno, nel lager, le amiche fedeli di Selma.
Il viaggio dura 15 giorni. Stretti nei convogli, senza acqua né pane, arrivano ad Aushwitz. All’arrivo, la separazione dai familiari e la selezione dei più deboli, tra cui la nonna, Elias.
Racconta Selma:
come siamo scesi dal vagone, già con fruste, bastoncini, sa quelle cose che avevano loro i tedeschi, i cani enormi, ci dividevano già, giovani d a una parte, vecchi da un’altra, uomini dall’altra, e così io sono già stata subito separata da mia madre, dalla nonna, la nonna l’ho vista scaraventare lì da una parte, che pensavamo appunto che non la vedevano mai più, e lei che continuava a gridare, io che continuavo a gridare, mia madre, mia madre non la vedevo più, mio padre e i miei fratelli lo stesso, e fu lì che dopo ci hanno messo dentro nelle baracche, ci hanno spogliate tutte, ci hanno tagliate a tutte i capelli, rasati al suolo, proprio bianche completamente, ci hanno fatto fare il bagno, che siamo state fortunate che veramente è stato un bagno doccia, non quella a gas.
La vita nel lager è durissima, sottoposta a sofferenze e violenze degradanti. L’amicizia e l’aiuto di Costanza ed Enrichetta consentono a Selma di sopravvivere. Si danno forza e cibo a vicenda.
Selma scampa miracolosamente alla morte ma nel lager resta due anni ed è liberata insieme alle due amiche romane.
A Berlino, dove vengono ricoverate in ospedale, Selma ritrova il fratello Mario. Il padre invece si lascia morire quando perde la speranza che i suoi familiari siano ancora vivi. Ai compagni che gli fanno coraggio, risponde con gli occhi spenti: “non c’è più nessuno”. Dalla prigionia torna anche la madre Rosa e il fratello Elio, che muore dopo la liberazione, a 31 anni, per una grave malattia.
Il ritorno alla vita, dopo la liberazione, nel dopoguerra, non è semplice.
Dall’Italia Selma si sposta in Argentina per trovare lavoro e alcuni parenti; ma poi torna, per stare vicino al marito malato, cui vuole molto bene, fino alla fine.
Da lontano, Enrichetta e Costanza fanno sentire la loro vicinanza che, come un tempo, le da’ grande forza. Molto cara è anche l’amicizia di Matilde Beniacar, che ospita a lungo in casa sua a Livorno, la madre Rosa.
Con la sua famiglia. Con le sue amiche. Con Grazia, sua figlia. Guardando avanti e al futuro, che doveva essere più giusto e umano. Così Selma affronta la sua vita, fino a quando si spenge a Torino nel 2007, a 83 anni.
PIERA GALLETTI e LIA GENAZZANI
Piera Galletti nasce a Firenze il 25 agosto 1902. Vive a Milano insieme al marito Ruggero Genazzani ed alla figlia Lia. Sono anni di grande entusiasmo per la scienza e per la tecnica, anche per la chimica. Nel 1905 Albert Einstein ha definitivamente dimostrato l’esattezza della teoria atomica e nel 1917 Bohr ha iniziato a usare la meccanica quantistica. Gli studi sull’energia atomica suscitano grande interesse, il suo impiego stupisce per le conseguenze positive e terribili che può avere a seconda del campo di applicazione. Il marito di Piera è chimico, segue i progressi della scienza e decide di partire per l’America, dove viene chiamato a lavorare nell’ambito delle nuove scoperte.
Piera e Lia rimaste sole decidono di trasferirsi a Livorno, dove vivono i genitori di Piera e la famiglia del fratello Dante. La casa è ai Casini di Ardenza, d’angolo con via del Mare. Il quartiere è bello e signorile. Lia ha 19 anni, è una bella ragazza, intraprendente, vivace, moderna. Ama andare al mare di fronte a casa, ai Bagni Peiani.
La famiglia Galletti tuttavia è colpita, come molte altre, dalla propaganda antiebraica e dalle leggi razziali, dalle limitazioni delle libertà civili, delle attività lavorative e delle possibilità economiche.
Nel ’40 Mussolini annuncia l’entrata in guerra dell’Italia, sono migliaia le persone riunite in piazza Cavour. Dopo alcuni episodi bellici con danno lieve per la città e la popolazione, nel maggio del ’43 i bombardamenti a tappeto distruggono Livorno. La popolazione sfolla nelle campagne vicine. Si parla di decine di migliaia di sfollati in un solo giorno.
Piera e Lia sfollano in campagna, vicino Pontedera. In una pagina del suo diario, datata novembre 1943, trovato a La Rotta tra le sue cose, Lia descrive l’emozione del viaggio con la mamma Piera per andare a salutare i nonni, lo zio Dante e le cugine Laura ed Anna, nascosti a Campo palazzi in provincia di Siena. Hanno infatti deciso di tentare l’”evasione” da un Paese, l’Italia, divenuto una prigione a cielo aperto, ipersorvegliato. Piera e Lia pensano alla Svizzera e hanno trovato il modo, almeno così pensano, per attraversare il confine con la Svizzera. Grazie a un conoscente, possono ottenere passaporti falsi.
Al ritorno da La Rotta, un imprevisto, l’esaurirsi del carburante della macchina, le costringe a una sosta per il rifornimento. Ma in quel luogo ci sono i tedeschi: sono giovani, sono ragazzi, vedono Lia, che è bella, le chiedono di ballare. Poi concedono loro un po’ di benzina e possono ripartire.
Il viaggio dalla Toscana alla Svizzera è pieno di imprevisti. Intorno ail Natale del ‘43 arrivano ai piedi del confine montano. Il 31 dicembre 1943, forse denunciate da chi aveva fornito loro il passaporto, Piera e la figlia sono arrestate in prossimità della frontiera italo-svizzera, portate nelle carceri di San Vittore di Milano e successivamente deportate ad Aushwitz, con il convoglio n. 6 detto RSHA.
Insieme a loro ci sono altri livornesi, ci sono i Baruch, i Bayona, di origine turca, ma anche gli Abenaim, alcuni degli Attal. Delle 600 persone del convoglio, solo 20 faranno ritorno, tra loro Isacco Bayona, Liliana sacerdote e Liliana Segre.
Piera muore, dopo poco più di un mese di lavori forzati, il 6 febbraio 1944. Lia segue lo stesso destino della madre. Ammalatasi di tifo petecchiale, muore il 31 agosto 1944: non ha ancora vent’anni.