Politica 21 Gennaio 2021

Potere al Popolo Livorno ricorda i 100 anni dalla nascita del Partito Comunista d’Italia

Livorno 21 gennaio 2021

Potere al popolo Livorno ricorda i 100 anni dalla nascita del Partito Comunista d’Italia

“E’ passato un secolo da quando, al Teatro San Marco di Livorno, venne fondato il PCd’I., per la scissione che maturò al XVII congresso socialista riunitosi al Teatro Goldoni.

Prendeva così avvio la storia di un Partito che sarebbe durato 70 anni, con molte pagine luminose e che avrebbe inciso fortemente sui destini del paese.

Dalla corrente definita ‘’massimalista’’ del PSI nacque un corpo politico in grado di incanalare le spinte rivoluzionarie dei frammenti popolari della società pur restando in clandestinità per i primi venti anni.

Difficile in poche righe controbattere alle posizioni di chi addebita a quella scissione un indebolimento del movimento dei lavoratori rispetto alla capacità di risposta che avrebbero potuto mettere in campo di fronte all’offensiva fascista.

Basti dire che l’atteggiamento del Partito Socialista, ma non quello di tanti compagni socialisti, si caratterizzò in quella fase per il rifiuto di organizzare una difesa attiva di fronte alla violenza fascista, per la predicazione di quello che Nenni stesso definì il “più gretto pacifismo”, fino alla firma di uno scellerato quanto inutile patto di pacificazione con i fascisti.

Difficile pensare che la presenza al suo interno della frazione comunista avrebbe potuto cambiare questo orientamento largamente maggioritario.

E’ da constatare, invece, che la scissione non riuscì a portar fuori dal Psi che un numero di compagni inferiore alla stessa forza rappresentata dalla frazione comunista dentro il congresso del Goldoni.

Questa considerazione valse a sollevare, in seguito, perplessità circa l’opportunità di rompere, in quel momento, con ampi settori dei socialisti, viziati certo da massimalismo ma sinceramente rivoluzionari che sarebbero rimasti comunque un tramite con le masse popolari socialiste che continuarono a confermare, in larga misura, l’adesione al vecchio partito.

Valga per tutto la diffidenza, se non la chiusura, che il partito dimostrò nei confronti del movimento degli Arditi del popolo, anche se forse solo di facciata.

Un esponente politico comunista sul quale è necessario spendere qualche parola è Amadeo Bordiga, teorico del centralismo organico, un modello organizzativo e decisionale in netta contrapposizione al centralismo democratico promulgato da Lenin.

Le tesi di Bordiga poggiavano su una maggiore necessità di orizzontalità nei percorsi decisionali, utilizzando come prova empirica il percorso dei soviet instaurati in Unione sovietica, ridefiniti e ridimensionati attraverso la Nep da Lenin nel 1921.

Il centralismo organico era strettamente collegato ad una visione armonica dell’organizzazione del partito, ed ancora oggi rappresenta un punto fermo di riferimento dal quale partire, come dimostrato dalle esperienze recenti all’interno dell’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est.

La scelta di interdire la partecipazione dei propri militanti a quel movimento, prediligendo piuttosto l’inquadramento in più deboli formazioni militari a base esclusiva degli iscritti al partito, provocò una dura stigmatizzazione da parte del Comintern che la considerò controproducente e in contrasto con l’esperienza e la prassi bolscevica.

D’altra parte non mancarono in quella fase altri e duraturi momenti di frizione con l’Internazionale Comunista.

Innanzitutto per l’ostilità dei “bordighiani” a promuovere con convinzione la parola d’ordine del fronte unico con i socialisti e in genere con i partiti delle altre Internazionali.

L’atteggiamento di chiusura non si modificò neppure quando i riformisti si staccarono dal Partito Socialista, nell’ottobre del 22, nonostante che ai tempi del congresso del Goldoni  il distacco dai riformisti fosse stata una delle condizioni che la frazione comunista aveva posto  per la sua permanenza nel partito socialista.

Alterne e drammatiche vicende portarono all’avvento del fascismo che procedeva con la spietata repressione delle opposizioni, con tante tragiche illegalità che culminarono nel delitto Matteotti al quale le cosiddette opposizioni costituzionali risposero con un gesto di sprezzante quanto inconcludente snobismo come risultò la secessione dell’ Aventino.

Nel partito comunista venne intanto aggregandosi una nuova maggioranza guidata da Antonio Gramsci che approderà con il congresso del gennaio del 26, tenuto a Lione, alla carica di segretario generale.

Se Livorno va orgogliosa della sua primogenitura, si può dire che Lione assiste alla nascita del PCd’I per come lo avremmo in seguito conosciuto.

Già nel novembre, però, il fascismo dichiarava illegali tutti i partiti antifascisti e arrestava Gramsci che sarebbe morto “in carcere”, non senza aver lasciato la sua “preziosa opera aperta“ che sono i suoi Quaderni.

In tutti questi anni così complessi e tormentati, il partito era però riuscito a costruire un’organizzazione capace di reagire nella clandestinità e, nonostante arresti ed espatri, riuscì a mantenere una presenza seppur embrionale nel paese, continuando l’opera di propaganda e per quanto possibile di agitazione.

Questa organizzazione, guidata da Togliatti da Mosca e dai compagni del Centro estero di Parigi, si fece trovare pronta a tutti gli appuntamenti della storia, a cominciare dalla guerra di Spagna, vero e proprio apprendistato per le battaglie che saranno combattute durante la Resistenza.

Grandissimo fu infatti il contributo alla guerra di Liberazione di quel partito che con il 43 assunse il nome definitivo di PCI e decisivo fu il suo impegno per la scelta della Repubblica nel referendum e fondamentale l’apporto che i deputati e le deputate comuniste seppero dare alla stesura della nostra Costituzione.

La rottura dell’unità antifascista, conseguenza del frantumarsi dell’alleanza antinazista, ad opera di Churchill e di Truman, aprì una nuova e lunga fase di repressione, con discriminazioni nei confronti dei partigiani, licenziamenti di lavoratori e un atteggiamento violentemente ostile della polizia di fronte ad ogni manifestazione di dissenso.

Il PCI non si fece però trovare impreparato. Sotto la guida di Togliatti era nato, nel frattempo il “partito nuovo” che da organizzazione di quadri, si trasformò in un grande partito di massa capace di reclutare milioni di iscritti fra operai, contadini, giovani e intellettuali.

Forte dell’impegno entusiasta dei suoi militanti il PCI contribuì alla ricostruzione del paese e dette vita ad una stagione di lotte imponenti che seppero fronteggiare l’offensiva conservatrice.

Lotte per il miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari, contro il latifondo e per la terra ai contadini. Lotte per la pace e in difesa della democrazia, più volte attaccata da rigurgiti reazionari e tentativi di golpe.

Forte fu anche l’impegno sulle questioni internazionali, dal sostegno a Cuba, all’appoggio, inizialmente solitario, alla gloriosa lotta del popolo vietnamita contro l’imperialismo statunitense.

Tutto questo lo portò ad essere il più grande partito comunista dell’occidente, un forte baluardo contro ogni attentato alla democrazia e la più sicura sponda per conquiste sociali e civili, che oggi sono di nuovo minacciate, quando non già abolite.

In una storia così lunga non possono mancare anche limiti, dovuti innanzitutto alla presenza preponderante delle forze militari di occupazione.

Più volte le scelte del PCI, dal dopoguerra in poi, sembrano ispirarsi a quella preoccupazione che Berlinguer definì come la necessità di procurarsi, se non il consenso, almeno la neutralità degli avversari.

Certo nell’immediato dopoguerra vi era la necessità di pacificare un paese scosso dalla guerra civile, ma forse è possibile leggere sotto quella luce anche tante scelte che furono compiute.

La famigerata amnistia che riempì di nuovo l’amministrazione, la magistratura e gli apparati di polizia, dei quadri dirigenti dello stato fascista; la mancata epurazione dei criminali di guerra fece sì che, invece di essere processati, venissero reintegrati nei loro ruoli nell’esercito, nelle forze dell’ordine e nei servizi segreti, come pure l’incapacità di resistere all’espulsione dei partigiani da questure e prefetture.

Forse lo stesso voto sull’articolo 7 della Costituzione doveva servire ad acquisire crediti presso il Vaticano.

Bisogna riconoscere che tali “accortezze” non condussero a nulla.

Quale fu l’esito dell’amnistia è stato detto e alla scelta di inserire i Patti Lateranensi nella Costituzione si rispose con la costituzione dei Comitati Civici che mobilitarono le masse cattoliche contro il Fronte Popolare nel 48.

Negli anni 70’, complice una stagnazione culturale interna al partito che comportò un pesante distanziamento da una realtà sociale sempre più diversa ed una condizione storica globale altamente conflittuale, il PCI dimostrò le proprie contraddizioni, già piuttosto sviluppate negli anni 60 quando i fatti di Piazza Statuto e di corso Traiano delineavano un futuro imminente.

Il rapporto tra PCI e sinistra extraparlamentare/realtà politiche marxiste -molto instabile- si sfaldò completamente, eventi come il compromesso storico, la cacciata di Lama (in quel momento segretario CGIL ma comunque membro attivo del PCI) dalla Sapienza nel 77, la repressione delle lotte sociali incorporate nei movimenti della sinistra extraparlamentare, la Marcia dei 40mila alla FIAT Mirafiori, il corteo assieme alla DC a Bologna 4 giorni dopo l’uccisione di Francesco Lorusso.

I consigli di gestione operai desiderati nel periodo di transizione post-guerra con il governo provvisorio di Ferruccio Parri erano solo un lontano ricordo.

Probabilmente, a giudicare dagli esiti, il più grosso limite del PCI fu un altro.

Quello di non aver articolato, se non implicitamente attraverso le sue politiche, una critica puntuale all’esperienza sovietica e innanzitutto ai suoi sviluppi. Non aver cioè approfondito da un’ottica di classe, marxista e gramsciana, la critica a quella società e non aver definito con più precisione una prospettiva diversa ma ancorata a valori che non si confondessero con un’accettazione passiva dello status quo.

Questa debolezza teorica è certo una delle cause dell’impreparazione con cui il suo gruppo dirigente affrontò la crisi definitiva delle società dell’est. Crisi che lo condusse a sciogliere il partito e ad abbandonarsi progressivamente all’egemonia del pensiero unico neoliberista.

Una storia durata 70 anni. Una storia con molte luci e qualche ombra, ma è certo che, da trent’anni a questa parte, siamo tutti più poveri.

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