Livorno 5 marzo 2025 – “Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.
Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.
Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Baumgartner” di Paul Auster
Baumgartner (2023) è l’ultimo, struggente romanzo del grande scrittore americano Paul Auster, morto lo scorso anno. Reduce da lutti immani, Paul era malato e sapeva di non averne per molto. Lo aveva annunciato in una pubblica dichiarazione. «Un libriccino tenero e miracoloso», così lo ha definito sua moglie Siri Hustvedt. È scesa con lui nell’abisso di Cancerland, in parte la ritroviamo nel personaggio di Anna, la donna della vita di Baumgartner.
Che differenza c’è tra un vedovo e un divorziato? Nel secondo caso, la tua ex moglie si porta via le sue cose, tutte, a volte anche qualcuna che consideravi tua. Nel primo, tutto nella casa è come se lei ci sia ancora. La biancheria intima nel cassetto, le pantofole ai piedi del letto, lo spazzolino da denti in bagno. È come se fosse partita senza un bagaglio. Per un viaggio da cui non tornerà. Quella persona a cui hai voluto bene come a nessuna non ti rivolgerà più la parola, non ti conforterà più ascoltandoti o guardandoti con i suoi occhi unici al mondo mentre le parli.
A questo e ad altro pensa il vecchio Sy Baumgartner nelle sue lunghe giornate solitarie. Poco importa se la sua Anna se n’è andata non dieci giorni, ma dieci anni fa. Con tutto il cuore Baumgartner vorrebbe onorare la vita, sente ancora il sangue scaldargli le vecchie ossa. Due anni prima si era innamorato e aveva pensato di risposarsi, poi non se n’è fatto nulla. Si appassiona quando una studentessa lo contatta per scrivere una tesi sull’opera poetica di Anna. Ordina libri inutili solo per incontrare Molly, la giovane postina di colore che glieli consegna sempre con un sorriso. Quel fisico giovane gli ricorda che esiste il desiderio e che qualche traccia di esso, nel suo vecchio corpo, è rimasta. «Ma nell’intimo è morto». Una sentenza. Sono dieci anni che lo sa e che cerca di rimuovere questa verità dai suoi pensieri — invano.
Il professor Seymour Baumgartner non insegna più ma continua a progettare libri. Come formazione è un filosofo, ma la sua bibliografia è eclettica. L’ultimo a cui sta lavorando si intitola Misteri del volante. Il precedente era sulla “sindrome dell’arto fantasma”, che coglie gli amputati. Lui preferisce chiamarla “sindrome della persona fantasma”. È esperto in materia per esperienza diretta, non ha bisogno di fare una ricerca sul campo. Ha perpetuato per dieci anni il culto dell’assenza attraverso la cura delle piccole cose superstiti nell’enclave della casa dedicata ad Anna: il suo studio. Oggetti un tempo insignificanti sono divenuti reliquie intoccabili di un museo che, con la sua intatta permanenza nel mondo tangibile, facilita il compito alla memoria.
Questo culto è così materico che un giorno, nello studio di Anna, squilla il telefono staccato da anni. Baumgartner risponde e sente la voce della moglie morta. Lei gli dice che tutti i miti sull’aldilà sono un equivoco. Sbagliano gli atei materialisti ma anche i cristiani, gli ebrei e i musulmani, i buddisti e gli indù. «Dopo la morte si entra nel grande nulla, uno spazio nero dove tutto è invisibile, un vuoto assoluto e silenzioso, un oblio sconfinato». E ipotizza che sia lui, suo marito, a tenerla in quello stato inutile di “coscienza della non esistenza”. Solo quando l’amore del vivo si spegne, ossia quando il vivo muore, allora la coscienza del morto può spegnersi per sempre.
Come lo Herzog di Saul Bellow e lo Stoner di John Williams, Baumgartner è un protagonista che si prende tutto il titolo col suo cognome. Tre figure diversamente memorabili: grottesca la prima, dolcemente patetica la seconda, quanto alla terza… La letteratura offre molti altri esempi più o meno simili. Bartleby lo scrivano di Melville, Mendel dei libri di Stephan Zweig, Austerlitz di W.G. Sebald. Niente può rendere la solitudine di un individuo meglio del proprio cognome messo alla berlina, isolato da tutto, senza un aggettivo, un articolo a fargli compagnia. Non è come durante l’appello a scuola, quando tutti eravamo solo cognomi. Identificare un romanzo con un cognome equivale a inchiodare il personaggio che lo porta al suo destino, quale che esso sia.
Questo libro dà la sensazione che il suo autore sia del tutto disinteressato a costruire alcunché. Nei flashback del protagonista, nei lunghi incisi in cui legge scritti della moglie defunta, nella ricapitolazione dell’albero genealogico del proprio alter ego (Baumgartner) si percepisce una sorta di insurrezione anarchica della forma. Lo scrittore della ricerca, dell’eccentricità, del gusto del pastiche è archiviato per sempre. È rimasto l’amanuense della memoria sbobinata senza piani prestabiliti. Non c’è una sola pagina in cui egli sembri chiedere alla propria fantasia (come nei libri che lo hanno reso famoso e riconoscibile) di produrre uno scatto di originalità. Sono cambiate le priorità, è mutato, con questa nuova, spoglia estetica, il senso stesso dello scrivere.
Si avverte la consapevolezza che questo sarà l’ultimo libro, più o meno come la ebbe Philip Roth quando nel 2010 pubblicò Nemesi. Le motivazioni sono profondamente diverse: Roth aveva deciso di non scrivere più e sopravvisse otto anni alla sua scelta. Auster, malato terminale di cancro, sapeva che queste erano le ultime pagine che avrebbe dato alle stampe. Sicché le sue parole sono un gregge che deve essere liberato, come quello di Polifemo dopo l’accecamento nella caverna. Che vadano a brucare ciascuna il suo pascolo, senza pastore. Non c’è più la tensione volta a esprimere qualcosa di sorprendente o di memorabile. Si dilegua qualunque artificio retorico, ogni parola vale per quella che è la sua definizione nel vocabolario. L’io narrativo ha lasciato il posto all’io reale. È morto lo scrittore postmoderno e gli è sopravvissuto semplicemente lo scrittore, per dare a se stesso, attraverso i suoi lettori, l’ultima contezza di sé. La semplicità è un valore che ha un carattere ultimativo. Dopo di essa, come in un lapidario epitaffio, nulla può seguire se non il silenzio.
Baumgartner è un libro talmente lineare da sorprendere e forse deludere qualche lettore appassionato di Auster, ma resta una riflessione sulla perdita e sulla senilità di un grande scrittore e, in quanto tale, imperdibile.