Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere Era solo la peste di Ludmila Ulitskaya
Livorno 15 luglio 2025 Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere Era solo la peste di Ludmila Ulitskaya
“Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.
Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.
Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere Era solo la peste di Ludmila Ulitskaya
La pandemia ha fatto tornare di attualità alcuni testi celebri sul tema: Il Decameron di Boccaccio, Storia della colonna infame di Manzoni, La peste scarlatta di Jack London, La peste di Camus, Le notti della peste di Orhan Pamuk e altri.
Soltanto i primi due hanno attinenza con fatti storici, la “peste nera” del 1348 e l’epidemia scoppiata in Lombardia nel 1630. Gli altri appartengono tutti, in un modo o nell’altro, alla letteratura distopica, sia essa proiettata in un futuro ancora lontano o collocata all’opposto nel passato.
Ludmila Ulitskaya, genetista di formazione, per quanto ormai estromessa dai suoi incarichi per ragioni politiche, aveva scritto questo inedito (al confine tra il romanzo breve e la sceneggiatura) nel 1988, nella speranza di essere ammessa ai Corsi superiori di regia e sceneggiatura di Valerij Frid. Frid non la ammise, ma con una lusinghiera motivazione: non c’era nulla che avrebbe potuto insegnarle. La grande scrittrice russa lo ha ripreso in mano e pubblicato lo scorso anno (La nave di Teseo, che cura tutte le sue opere, lo ha subito tradotto).
C’è nell’antefatto della trama qualcosa che anticipa la tesi complottista (mai provata) di un virus Covid-19 diffuso per errore da un laboratorio cinese. Rudol’f Ivanovič Majer, scienziato dell’Istituto di Ricerca contro la peste di Saratov, convinto di aver fatto un passo decisivo nella produzione di un vaccino contro il terribile Yersinia pestis, viene convocato a Mosca dal Commissariato del popolo alla salute, dove gli esiti della sua ricerca sono accolti trionfalmente. Peccato che, poco prima di lasciare il suo laboratorio, per un brevissimo istante Majer abbia tenuto parte del volto non coperto dalla maschera di protezione, proprio mentre lavorava con uno dei ceppi più virulenti del batterio.
Già in treno si ammala, in albergo gli diagnosticano una polmonite e, nell’ospedale in cui viene ricoverato, il malcapitato medico di turno diagnostica un caso di peste polmonare. Da questo istante si mette in moto una macchina che nessuno potrà più fermare: la rincorsa a tutti i contatti avuti da Rudol’f Ivanovič dopo l’infausto contagio. Nella postfazione-intervista, Ludmila Ulitskaya ci dà uno scoop: il suo testo si ispira a un fatto di cui ha saputo per vie indirette e che pare sia realmente accaduto a Mosca nel 1939, ma di cui solo pochi addetti ai lavori erano a conoscenza.
La Ulitskaya aveva certamente presente il bellissimo libro di Camus, con cui c’è in comune la preveggenza nell’immaginare la psicologia collettiva di una società colpita da un nemico invisibile. Ma se il pessimismo di Camus sulla Modernità è cosmico e lo avvicina a certe atmosfere kafkiane, con l’eccezione dell’umanità del dottor Rieux, in Era solo la peste si è inteso piuttosto fare un censimento delle reazioni, non tanto alla malattia, che ancora per pochissimi aveva rivelato i suoi sintomi, quanto alla cattura senza spiegazioni, che può preludere a moltissime ipotesi; ciascuno ha le sue e l’ultimo pensiero è quello di essere stati contagiati da un male che non dà scampo.
Siamo nell’Unione sovietica di Stalin, ancora vivo, perciò i tentativi delle autorità di circoscrivere i possibili contatti del cosiddetto “paziente zero”, lo scienziato Majer infettatosi da solo, le automobili con gruppi di militari che in piena notte irrompono negli appartamenti, scatenano reazioni di ogni genere. Un primo paventa l’imminenza di un arresto nell’ambito dell’ennesima purga. Un secondo fugge. Un terzo si suicida lasciando una lettera al compagno Stalin.
Uomini e donne vengono sorpresi in flagrante adulterio e si proiettano gli scenari tipici dei colpevoli colti in fallo. La moglie di un alto funzionario sequestrato rende una confessione che accusa il marito di “freddezza” verso le attività del Partito, sperando di essergli utile e non sapendo di fare una denuncia gratuita e controproducente. «Il nostro magnifico popolo è abituato a che la verità non gli venga mai detta», dice Ludmila Ulitskaya nella postfazione. Quanto è stato vero nei secoli e fino ai nostri giorni!
C’è insomma tutta un’umanità di eroi e di codardi, tutto un catalogo di isterie. C’è soprattutto l’incrocio perverso tra un evento sanitario infausto e l’inveterato clima politico da caccia al traditore. Bisogna riconoscere che la Ulitskaya sa descrivere con maestria le tante casistiche di questa funesta interferenza. Il suo è un realismo straordinariamente efficace pur mantenendosi nei confini del racconto convenzionale, eppure l’intrigo mi ha fatto tornare in mente L’ispettore di Gogol’ e Uova fatali di Bulgakov, due giganti che hanno aggiunto al realismo russo ciascuno una personalissima teatralità e un tragicomico senso del grottesco.
Come finisce la storia? Quando i giorni fissati per la quarantena scadono e si verifica che l’epidemia, a parte i tre deceduti iniziali, è stata evitata, per gli “ostaggi della peste” si spalancano le porte di ospedali, alberghi e vagoni ferroviari. Il giorno in cui l’anziano medico che in albergo aveva diagnosticato la polmonite al povero Majer torna dalla moglie, lei lo abbraccia e gli dice che temeva non l’avrebbe più visto. «Dina, era la peste. Era solo la peste!» «Soltanto la peste? E io che pensavo…». Questa è la Russia.
Il ritmo del racconto è concitato, con cambi di scena continui e improvvisi. Le frasi sono perlopiù telegrafiche. Una scelta obbligata dal precipitare degli eventi. In nessun modo lo si può definire un abbozzo, perché la tensione narrativa resta sempre altissima.
È un’opera matura, che va ben oltre gli scopi di un testo necessario soltanto per accedere a un corso di regia teatrale. La distopia sanitaria di Ludmila Ulitskaya si innesta su un contesto autoritario e la si può considerare una grande simulazione in vivo di come potrebbe reagire un apparato come quello sovietico dinanzi a un fenomeno di tale pericolosità. L’esigenza di non far trapelare le ragioni di centinaia di sequestri di persona, peraltro messi in quarantena a ragione, alimentano nei congiunti l’idea che ci sia qualche oscuro capo d’accusa che, come non era certo insolito in URSS, forse non si sarebbe mai venuto a sapere.
Del resto abbiamo visto da qualche filmato cosa accadeva in Cina nei primi tempi del Covid, e sappiamo tutti per esperienza diretta che da noi lo stato di emergenza ha comportato necessariamente una serie di misure di prudenza e una lunga sospensione di alcune libertà individuali, per il quale fenomeno svariati opinion makers hanno gridato allo Stato liberticida. E questa è l’Italia.