Libri, recensioni 18 Marzo 2025

Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Mattino e Sera” di Jon Fosse

Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Mattino e Sera” di Jon Fosse

Recensioni - Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Mattino e Sera” di Jon FosseLivorno 18 marzo 2025 – “Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”

Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.

Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.

Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Mattino e Sera” di Jon Fosse

Sono ancora poche le traduzioni in italiano del norvegese Jon Fosse, penultimo premio Nobel per la letteratura (2023).

La scrittura di Fosse è tipicamente scandinava: colori nella scala del grigio come il cielo di quelle parti. Tornano in mente Strindberg, Hamsun. È una prosa scarna, esangue, in cui le passioni si esprimono sempre in forme ellittiche, restie. In questa essenzialità ritrosa fluiscono tuttavia, legnosi come le venature di una foglia secca, i temi cardine dell’esistenza umana. La vita giovane che urla la sua energia animale, la vita vecchia che langue nella nostalgia e nell’accettazione del proprio declino. Scarna anche la punteggiatura di Fosse: c’è l’a capo ma manca il punto. Bisognerebbe chiamarla virgolettatura. Periodi di lunghezza proustiana si contrappongono a secchi dialoghi con formule ossessive come mantra.

La novella Mattino e sera (2000) fa venire in mente l’indovinello che la Sfinge pone a Edipo sull’animale che nell’arco di una giornata ha prima quattro, poi due, infine tre zampe. Non c’è il giorno, solo l’alba e il tramonto in questa storia, un po’ come negli inverni artici della Norvegia, quando la luce solare è poco più che un miraggio. Due soli capitoli come le parole del titolo, il primo breve come un parto, il secondo lungo come l’attesa della morte. Un bimbo nasce, si chiamerà Johannes come il nonno paterno e farà il pescatore come il padre. Un vecchio muore, si chiama Johannes, ha fatto il pescatore per una vita. Il libro si sarebbe potuto intitolare Il primo e l’ultimo giorno di Johannes. Il signor G, album di esordio nel teatro-canzone del mai abbastanza rimpianto Giorgio Gaber, più o meno inizia e finisce come questo romanzo: una stessa melodia con parole diverse in cui G descrive il proprio battesimo e il proprio funerale.

In fin dei conti, entrambi i capitoli di questo romanzo parlano di attese. Nel primo, Olai, modesto pescatore che vive con la moglie nella sua isoletta, aspetta con ansia la nascita di un figlio maschio. Se sopravvivrà, dovrà chiamarsi Johannes come suo padre. Lacerato dall’attesa, Olai disquisisce tra sé come un navigato filosofo sulla dicotomia tra divino e maligno. Di certo non ha letto San Tommaso, né Aristotele, né Cartesio. Però ha una sua nozione intuitiva del dualismo, opposto al monismo dei presocratici, dei cabalisti e di Schopenhauer. Se con altrettanto innatismo fosse monista, non nutrirebbe alcuna paura sul buon esito del parto. Per sua disgrazia è un dualista, sa che «questo mondo è governato da un dio minore o dal male stesso». Sa anche (e se lo dice) che in questo suo apotropaico sgomento c’è un vestigio di paganesimo che il pastore luterano della cittadina, se avesse il potere di udire i suoi pensieri, taccerebbe di eresia.

Nel secondo, assai più lungo capitolo, il vecchio Johannes, vedovo, con la sua pensione di pescatore che gli permette di non dipendere dai figli, a ogni risveglio fa i conti con la vita, che gli ripropone l’ennesimo vuoto di ore da riempire. Può rimettersi in barca, può andare a trovare i nipoti o farsi semplicemente una passeggiata a ovest di Vågen.

È una necessità quotidiana frugare nella testa per dare un senso a questo presente inerte e poco incline ai suggerimenti. Allora anche una minuzia come rollarsi una sigaretta può essere masticata, rigurgitata e di nuovo ingerita, declinata insomma attraverso reiterati ripensamenti. Lo stesso vale per qualunque altro gesto o pensiero. Peccato che le giornate siano diventate così lunghe, che gli altri abbiano tanto da fare che non si può disturbarli, oppure che siano morti. Johannes sa che questo ripetersi sempre uguale dei giorni è ingannevole, che ognuno di essi gli toglie qualcosa: lo sente nelle giunture che scricchiolano più che in passato quando si alza dal letto.

Il racconto della sua ultima giornata è costellato da infiniti incisi. «Pensa Johannes», «pensa Peter», «pensa …» ogni altro personaggio che si alterna alla terza persona della narrazione. Un po’ come l’ipnotico «sostiene Pereira» del romanzo di Antonio Tabucchi. Nella vita di Johannes c’è troppo passato perché quest’ultimo non invada il presente e alteri la percezione della realtà, degli oggetti sparsi per la casa. Alcuni sembrano incredibilmente pesanti per tutto il lavoro che è stato compiuto grazie a loro, altri sono l’immagine stessa della levità, come fossero andati in pensione col loro proprietario.

D’improvviso, Johannes avverte qualcosa di strano nel corpo, vede le dita della mano sinistra diventare bluastre sotto le unghie. La sua giornata supera un punto di non ritorno: varca il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti. Presente e passato si confondono nella sua mente. Crede di girovagare per la cittadina. Si imbatte solo in fantasmi: il vecchio amico Peter con cui si tagliavano a vicenda i capelli. La moglie Erna da giovane, prima ancora che si fidanzassero. Anna, una domestica a cui da ragazzo aveva scritto una sciocca lettera d’amore. Johannes è giovane e vecchio al tempo stesso, è una creatura che appartiene al passato. Il tempo andato lo reclama e solo deboli resistenze fa il suo presente per tenerselo.

Ma tutto questo… dove accade? Nella realtà o in quella specie di sogno che è la transizione tra l’essere e il non essere? Anche dopo che la figlia Signe ha trovato il cadavere del padre, anche dopo l’arrivo del medico che ne constata il decesso, qualcosa in Johannes si agita. La morte non dà mai il tempo alla vita di chiudere i propri conti. Resta un abbrivo di incredulità e di terrore, sospeso chissà dove, in un mondo di mezzo che non è né immanente né trascendente, non più materia e non ancora spirito.

La curiosità, il bisogno di indagine di uno scrittore lo spingono laddove perfino lo scienziato e il prete si fermano: sbirciare nel buco della serratura dell’Altrove, qualunque cosa esso sia, finanche il Nulla, e tentare di descriverlo con le parole. Con questo rarefatto, metafisico finale, credo che Jon Fosse paghi un debito di riconoscenza a Spettri del grande connazionale Ibsen.

Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Mattino e Sera” di Jon Fosse

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