Libri, recensioni 10 Marzo 2023

Recensioni – Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere Todo Modo

“Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”

10 marzo 2023

“Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”

Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.

Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.

Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere Todo Modo

 

Tornare a leggere Sciascia

Todo modo è l’acuta allegoria di una società corrosa, malata, intimamente anti-etica. È stata magistralmente orchestrata da un autore assurdamente dimenticato. Lo hanno imbalsamato (insieme ad altre vecchie glorie intellettuali del nostro Novecento) in una sorta di italico Hôtel des Invalides. Leonardo Sciascia viene riesumato da questo sfarzoso Cimitero dei Padri solo per citazioni ad hoc, ricorrenze e retoriche commemorazioni. Invece bisognerebbe tornare a leggerlo per capire, non solo quanto accadeva da noi sotto i suoi occhi, ma quanto accade sotto i nostri. Perché molti fili delle trame che lui tentò di smascherare e far conoscere sono spariti nelle cavità carsiche della Storia; hanno superato gli anni di piombo e delle stragi e si sono ramificati fin sotto i nostri piedi.

La brevità del volume non inganni circa la profondità delle riflessioni che contiene. È un giallo filosofico, nel classico stile dello scrittore siciliano. Sciascia non può esimersi dall’affabulare con il lessico e la morfologia del saggio anche quando scrive una fiction. Il suo sarcastico raziocinare scava con l’aratro dell’analisi e dell’intuizione un suo solco originale tra Voltaire e Pirandello. Senza il radicalismo del primo, senza il gusto del sillogismo e del paradosso del secondo.

Del resto, il drammaturgo di Agrigento, che nella vita dello scrittore di Racalmuto entrò e moltissimo, un po’ si infila anche in Todo modo. «Nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani con traumi pirandelliani», dice di sé l’io narrante. È un pittore noto e affermato (che resta anonimo come tutti o quasi i personaggi). Un giorno in cui si sente particolarmente svogliato e in vena di sofistici soliloqui, inizia a guidare senza meta. Si imbatte così in un insolito cartello turistico, “Eremo di Zafer, 3”. Il 3 deve riferirsi ai chilometri.

Incuriosito, imbocca la deviazione e arriva al cosiddetto eremo, che si rivela essere un casermone a molti piani tutt’altro che antico. Vi trova un prete che fa anche da concierge. Il prete gli spiega che quel luogo è sì un eremo, o meglio lo era, ma ora è un albergo. È stato Don Gaetano a ristrutturarlo, però ha salvato l’eremo, che ora è la cripta dell’hotel. E chi sarebbe Don Gaetano? chiede il pittore. Il prete si meraviglia che non conosca Don Gaetano, grande filantropo, edificatore di scuole e alberghi religiosi con fondi privati e pubblici.

Dopo una specie di sgradito interrogatorio, il pittore scopre che di lì a un paio di giorni l’eremo di Zafer ospiterà una settimana di “esercizi spirituali”. I partecipanti sono tutti VIP: prelati, ministri, deputati, industriali, direttori di giornali. Il pittore chiede se può essere ospitato come semplice cliente. Il prete si mostra perplesso. Solo quando, poco dopo, apparirà sulla scena Don Gaetano, il pittore potrà avere da lui in persona l’autorizzazione e il privilegio a trattenersi. Il deus ex machina del luogo ha riconosciuto l’artista e ne ricorda persino il nome.

Il “Don” non è segno di deferenza verso un mammasantissima o un potentato, come si usa in Sicilia o in altre regioni del Sud. Anche lui è un sacerdote. Un ecclesiastico molto sui generis, dotato di arguzia fuori dal comune, insomma tutto l’opposto del parroco di campagna. Secondo quel che dice o più spesso lascia intendere, Sciascia lo fa apparire come un mistico, come un filosofo scettico, o come un mefistofelico burattinaio. Sempre insinuante, sibillino, inappuntabilmente gentile ma con l’aria di saperne più di tutti su tutto. Quando ai segreti delle camarille si aggiungono quelli del confessionale…

Come mai questa consorteria di potenti si riunisce in un luogo così appartato, come farebbe una loggia segreta, senza pubblico, senza stampa, senza clamore? È quanto l’insalutato ospite pittore si ripromette di scoprire restando.

Ma ecco che un pomeriggio, durante la peripatetica recita del rosario nel piazzale antistante l’albergo, uno degli illustri ospiti viene ucciso con una revolverata. È un ex parlamentare che ha rinunciato al mandato per assumere la carica (certo più lucrosa e “maneggiona”) di Presidente di una importante società. Arriva la polizia, arriva il magistrato, guarda caso un vecchio compagno di liceo del pittore. Quest’ultimo rivela di essere anche un autore di polizieschi sotto pseudonimo. Si spiegano allora la sua curiosità crescente, i suoi tanti interventi nelle discussioni tra inquirenti e ospiti. Si scopre che il morto ungeva praticamente tutti gli altri presenti con denaro attinto da fondi segreti. Al primo omicidio ne segue un secondo, di certo collegato. Poi un terzo, del tutto inatteso, sconcertante. Qui cala il sipario sulla vicenda e la narrazione si conclude con una lunga citazione delle Caves du Vatican di André Gide.

Di certo la classe dirigente italiana degli anni Settanta non esce immacolata da questo racconto lungo, per usare un eufemismo. Quando mai Sciascia è stato tenero con i potenti? Il giallo diventa l’espediente per metterne a nudo i vizi tentacolari, la rapacità, la spregiudicatezza. Menzogna, demagogia, corruttela, doppiogiochismo. «Un canestro di vipere», così Don Gaetano definisce i suoi ospiti. Eppure li convoca, li blandisce, li sfama nel corpo, quanto all’anima… dubita che ne abbiano una.

Non c’è bisogno di aperte illazioni, i comportamenti sono eloquenti soprattutto nei loro silenzi. I partiti governativi, la grande industria, il Vaticano, la finanza, quelli che oggi chiameremmo poteri forti sono collusi “a prescindere”. Si combattono e si alleano secondo geometrie variabili, si rispettano e si temono sempre. Agiscono come una falange se osservati da chi potente e informato sui misteri non è. Appaiono un groviglio di lottatori avvinghiati se si ha la ventura — come capita al nostro pittore — di trovarsi per caso testimone dei loro “esercizi spirituali”.

La scelta di un pittore come protagonista e, in una certa misura, alter ego, non è casuale. Dà modo a Sciascia, cultore delle arti figurative, di introdurre spigolature critiche sulla pittura e sul gesto artistico. Tuttavia, in Todo modo ritroviamo soprattutto l’impegno civile, la passione per l’attualità politica. Per lui, troppo spesso essa passa attraverso le cronache giudiziarie, lasciandovi mucchi di indizi che non si coagulano mai in prove.

«Mi guidano la ragione, l’illuministico sentire dell’intelligenza, l’umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni», scriverà di lì a qualche anno. Nel 1974 l’affaire Moro non è neanche pensabile. Ma c’è già stata piazza Fontana, entro pochi mesi ci saranno la bomba di piazza della Loggia a Brescia, a seguire la strage dell’Italicus. Questo è il clima che si respira in Italia in quegli anni. Intrighi, complotti, la paura di un PCI che per la prima volta minaccia di superare la DC alle elezioni.

«Non si troverà il colpevole, non si troverà mai», dice il vecchio e smaliziato commissario incaricato dell’inchiesta sui delitti perpetrati nell’eremo di Zafer. È una metafora di tutte le indagini non chiarite, di tutti i processi non celebrati, di tutti i segreti non svelati della Prima Repubblica. Forse di tutte le battaglie civili tenacemente combattute da Sciascia. E anche una sentenza.

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