Recensioni – “Una donna” di Annie Ernaux, insignita del premio Nobel una settimana fa
“Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Livorno 15 ottobre 2022 – “Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.
Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.
Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Una donna” di Annie Ernaux
Nobel a sorpresa
Solo una settimana fa pochi conoscevano Annie Ernaux. Ma il 6 ottobre questa ottantenne scrittrice francese ha vinto a sorpresa il Nobel per la letteratura 2022; ciò l’ha fatta assurgere inevitabilmente agli onori della cronaca.
Una donna «non è una biografia, né un romanzo» (testuali parole dell’autrice). Racconta la storia di sua madre, partendo dalla morte in un reparto di lungodegenza e andando a ritroso nel tempo.
L’inizio – la descrizione degli adempimenti dopo il decesso, il funerale — ha una forma diaristica, frasi brevi che scandiscono i fatti e rare riflessioni. Nei testi della Ernaux non c’è spazio per elementi di invenzione, né per un uso del lessico che non sia diretto, non metaforico, elementare. L’enunciazione dei fatti è per lei il linguaggio elettivo per evocare un microcosmo sentimentale, per suscitare emozione e identificazione. Si può affermare che lo stile della Ernaux è la rinuncia a qualunque stile. La sua poetica, che riconosce al vocabolario un valore più comunicativo che espressivo, si potrebbe definire “testimonianza del reale”. Esprime la convinzione che il vissuto interiore coniughi di per sé forma e contenuto in un tutt’uno. L’importante è che ci si lasci dettare le parole dai ricordi in modo onesto, senza dissimulazioni o manipolazioni romanzesche.
Il lutto preso di petto
Annie Ernaux postilla continuamente se stessa nel suo testo, lasciandogli una forma come di canovaccio, di work in progress. Espone dubbi e giustifica le scelte per la via presa dal racconto. Ha impiegato dieci lunghi mesi per comporre queste novantanove pagine. Ha dovuto lasciar decantare quanto di volta in volta scritto prima di aggiungervi altro. Aveva la consapevolezza di iniziare un viaggio nel lutto, il più importante della sua esistenza, mentre mille scrupoli la assalivano. Si è chiesta se non sarebbe stato meglio lasciare alla malattia e alla morte di sua madre il tempo fisiologico di sedimentare in lei. Di compenetrarsi lentamente col resto del suo vissuto, come già accaduto per altri eventi cruciali, la morte del padre, la separazione dal marito.
Il primo morso del lutto è l’incredulità dinanzi all’assenza e alla separazione. La figlia si chiede caparbiamente se può fare ancora qualcosa per la madre morta. Si aggrappa a piccole azioni senza importanza, purché le diano la sensazione di rendersi ancora utile per lei. È spiazzante, logicamene inaccettabile il verdetto della morte, la soluzione di continuità determinata dall’assenza di una persona mai venuta meno dalla nascita. In breve il prendere atto che un volto caro «non sarà mai più in nessun luogo al mondo». È inumano constatare la degradazione, nel volgere di una giornata, da figlia solerte e premurosa a mera archivista di ricordi materiali e immateriali.
A questo punto del suo “memoriale”, la “figlia” spiega che cosa l’ha spinta a scriverlo. Non vede alternativa alla parola per cercare, nelle proprie confessioni, la verità di sua madre che nessuna foto, nessun ricordo dei parenti potranno restituirle. Soltanto raccontandosi la vita di questa donna che non è più, dall’infanzia fino all’età più tarda, la figlia spera di riconciliare memoria e intuizioni retrospettive. Nel solo modo che le è congeniale, si fa biografa di chi l’ha messa al mondo.
Una donna, una madre
Inizia la rievocazione della vita di “una donna”. La scrittura procede per immagini, a volte semplici frammenti o flash. La Ernaux sfoglia la propria memoria di figlia come un album di famiglia. Sua madre aveva origini molto modeste. Ma era dotata di un carattere forte. Ciò le ha fatto comprendere presto che bisognava sottrarsi a tutti i costi a un destino di operaia, gramo e senza futuro. La sola via d’uscita era tentare il “salto sociale”. Così prende marito e con lui rileva un bar emporio. Con gli anni gli affari iniziano a ingranare. È lei che porta i pantaloni in casa, lei che si occupa delle finanze e che gestisce le relazioni con i clienti.
È Annie a raccontare con occhi di bambina questa donna vitale, incontenibile. Ricorda gli scapaccioni presi quando faceva troppo chiasso, disturbando chi era nella drogheria. Al tempo stesso ammira come una dea questa creatura insieme granitica e tenera. Si identifica con lei ed è convinta che, crescendo, ne diventerà un calco fedele.
Questa donna ha delle mire per la sua unica figlia. Fa ogni genere di economie per far studiare la ragazza e concederle opportunità che a lei sono state negate. È una madre pronta a ogni sacrificio per farle avere una vita migliore della sua, persino il più grande, la separazione. Cosa che avverrà quando la ragazza andrà al liceo e poi all’università.
Dopo la morte prematura del marito, superati i sessant’anni la madre si rassegna a dover rinunciare al lavoro. Vi aveva profuso ogni energia, ma al tempo stesso l’aveva tenuta viva. Prende la sofferta decisione di trasferirsi nella casa della figlia. Ora è soltanto una “nonna”, in una città che non conosce e dove scopre per la prima volta l’ozio, condizione per lei intollerabile. Improvvisamente il suo universo si comprime in un piccolo spazio casalingo, che le infonde malinconia, perché tutti hanno da fare tranne lei. Si ritrova a vivere in un mondo che «da un lato la accoglie e dall’altro la esclude».
La catarsi del ricordo
L’autrice denuncia la sua ritrosia a parlare anche degli ultimi anni, quelli in cui si manifesta l’Alzheimer di sua madre. Sa tuttavia di dover portare a termine questo percorso. Deve congiungere nel ricordo il corpo inossidabile di un tempo con il triste simulacro in cui si erano rintanate la sua fisicità e la sua anima. Deve bere quanto resta del calice della vita di sua madre: la feccia.
Il percorso del ricordo attraverso le parole scritte ha compiuto una metamorfosi sentimentale nella figlia. La presenza illusoria di sua madre è diventata preponderante. Tanto da oscurare quell’assenza reale che nei primi giorni incombeva su ogni luogo e su ogni istante delle sue giornate. Non sta più scrivendo su sua madre. È tornata accanto a lei in un tempo e in un luogo fittizi, immaginari, dove lei è ancora viva.
Il libro termina come finisce: con l’espressione dolorosa di una perdita. Sua madre era il trait d’union tra la bambina e la donna in cui il Tempo l’ha trasformata. Ora che non c’è più, colei che narra ha smarrito il solo legame con l’universo mnemonico, emotivo, valoriale che sta alle sue radici. Viene allora da chiedersi se il titolo si riferisca, come sembrava, alla madre o piuttosto alla figlia. Oppure a entrambe che, malgrado le loro differenze, finiscono col somigliarsi, col ricongiungersi in una sola anima. «Un giorno, nel ventunesimo secolo, sarò anch’io una di quelle vecchie che aspettano la cena piegando e ripiegando senza posa il tovagliolo».
Una donna è un piccolo, commovente libro, che si divora in un giorno. Ciò nonostante, esso ha il potere di sollecitare profonde riflessioni sul lascito ancestrale dei legami di sangue. Non ultimo, induce a naturali, immediate identificazioni.