“Stalingrado” di Vasilij Grossman, il romanzo senza tagli e revisioni della censura sovietica
“Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Livorno 21 settembre 2022 – “Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.
Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.
Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Stalingrado” di Vasilij Grossman
Una pubblicazione epocale
Quanto è importante la pubblicazione di Stalingrado di Vasilij Grossman (Adelphi, 2022), depurato dai tagli e dalle revisioni della censura sovietica? Per la letteratura un evento straordinario, quanto per l’arte sarebbe il ritrovamento di un ritratto di Tiziano che si credeva perduto. Per l’enorme statura artistica dell’opera. Per la sua preziosa testimonianza storica. Per la penetrazione e l’intensità emotiva delle riflessioni sul valore etico dell’esistenza umana. Non ultimo, per una monumentalità che non conosce cali di tensione o momenti di stanchezza.
Chi avesse già letto quell’altro capolavoro che è Vita e destino ritroverà in Stalingrado personaggi noti, perché Stalingrado ne è l’antefatto. Nel primo romanzo la narrazione militare prevale su quella civile, nel secondo esse si equivalgono. Grossman li aveva concepiti come un’unica opera in due parti sulla guerra contro i nazisti. Soltanto la prima di queste fu pubblicata e con un titolo enfatico (Per una giusta causa).
Il cantore degli eroi sconosciuti
Stalingrado è il racconto della più celebre battaglia della Seconda guerra mondiale. A Stalingrado si schiantò l’illusione di Hitler di avere sconfitto «dicembre, gennaio e febbraio, i tre generali migliori di tutte le Russie». È la guerra strada per strada, casa per casa come nessun altro ha saputo raccontarla. È il romanzo corale di un’epopea, dove l’intera terra russa prende la parola. Dal più umile contadino di un kolchoz al comandante dell’intero Fronte antitedesco. Un kolossal dove perfino i tiranni (Stalin e Hitler) recitano diligenti il loro cameo.
Non si contano le pagine memorabili, commoventi di questo libro. Descriverne la trama in poche righe è impossibile. Siamo dinanzi a una tela smisurata, degna di Tintoretto, con centinaia di personaggi raggruppati su numerosi piani. Il filo della narrazione salta continuamente da un piano all’altro, dando così il senso del movimento e della scansione del tempo. Dà voce ora a un ambiente familiare ora a un contesto militare, senza trascurare una sola comparsa di questo sconfinato presepe. In ciascuno è insufflata un’umanità profonda, appassionata, espressivamente compiuta: insomma, la firma di Vasilij Grossman.
Benché Stalingrado abbia forti connotati patriottici (più di Vita e destino), non è un’opera retorica; in alcun modo la si potrebbe catalogare come “realismo socialista”. Solo il titolo impostole all’epoca dalla politica lo fu. Solennità e retorica alterano la verità con un fine specifico, non di rado subdolo, sottolineandone alcuni aspetti a detrimento di altri. Al contrario, l’epos la eleva dalla prosa alla poesia, la “canta”.
Fu certamente nelle intenzioni di Grossman indennizzare la memoria di tanti oscuri eroi della “guerra patriottica” che nessuno avrebbe ricordato. Sotto questo aspetto, il romanzo è il loro grande sacrario collettivo. La guerra è descritta come lo spartiacque più autentico tra coraggio e viltà. Tra i sedicenti audaci che, davanti al pericolo, si nascondono come topi e i silenziosi, gli “invisibili” in cui nessuno avrebbe sospettato il martire. Stalingrado in fiamme è insieme inferno e paradiso; il luogo dove la sola conseguenza benigna del male è la riscoperta dei valori più autentici della persona. Alla base dell’esistenza umana ci sono per Grossman idee e sentimenti semplici, positivi, vitali, uguali per ogni popolo. Queste forze fondamentali, perlopiù interiori, in parte innate in parte sviluppate con l’esperienza, sono il vero tessuto connettivo della società umana.
La barbarie della guerra ha trasformato il comunista ortodosso della prima ora in un uomo diverso. Quando il corrispondente di guerra che aveva scritto da poco L’inferno di Treblinka vede rinascere l’antisemitismo anche nel suo Paese, si indigna. Lo scrittore ucraino è stato testimone di troppi orrori per non soffermarsi a riflettere sul valore più autentico della parola “democrazia”. Sul compito storico di questa forma di governo. La nuova filosofia morale di Grossman è sinceramente antitotalitaria e confligge con la concezione opaca, oligarchica del potere sovietico. Non avrà la temerarietà di esprimerla pubblicamente in anni in cui in URSS si era giustiziati per molto meno. Non bisogna dimenticare che nel 1952, anno di pubblicazione di Per una giusta causa sulla rivista Novyj mir, Stalin è ancora vivo. Grossman dissimula allora le proprie opinioni nei suoi scritti.
Nella ritirata dell’Armata rossa fino al Volga, Grossman celebra senza enfasi il coraggio e lo zelo di tanti. Ma non risparmia le furbizie, le piccole viltà, insomma i vizi (atavicamente umani) di pochi. Dà voce alle inquietudini e ai pensieri tutt’altro che patriottici da cui chiunque, dal generale al soldato semplice, è attraversato nel corso di una battaglia. L’indolenza, l’imboscamento, la diserzione dei militari, oppure il brontolio dei contadini stanchi di essere depredati dall’esercito in ritirata. Per quanto non siano la regola, sono un pugno nello stomaco all’ortodossia sovietica. Il regime non tollera difetti nell’affresco della “grande guerra patriottica”, perché vi fiuta sempre il baco della controrivoluzione.
La “deviazione ideologica” del libro, che i suoi censori erano convinti di aver corretto “alla fonte”, non fu colta nell’immediato. Ma emerse alla lunga e attirò sul suo autore uno sciame di rimproveri. «Il romanzo di Grossman è uno sputo in faccia al popolo russo». Non gli perdonarono di non aver lavato i panni sporchi in famiglia. Non vollero vedere che, di quel popolo, il romanzo di Grossman era il poema epico che nessun Puškin aveva mai scritto.
Nei primi anni Sessanta, quindici anni dopo aver iniziato il primo libro, Vasilij Grossman si sentì pronto a pubblicarne il seguito. Ma esso era ancora più eversivo agli occhi dell’apparato. Chruščëv in persona lo impedì, perché il manoscritto era una strisciante diffamazione del regime sovietico. Il capo del Cremlino gli fece riferire che il libro correva il rischio di non vedere la luce prima di due o tre secoli. «Perché mai dovremmo aggiungerlo alle bombe atomiche dei nostri nemici?»
L’uomo in cui dieci anni prima la nomenklatura aveva creduto di identificare il “nuovo Tolstoj” era caduto in disgrazia, da tempo, irreversibilmente. Vita e destino non vide mai la luce in URSS. Fu pubblicato in Svizzera molti anni dopo la scomparsa in relativa miseria del suo autore, addolorato, emarginato e dimenticato. Grossman morì convinto che il KGB avesse distrutto ogni copia manoscritta dell’opera a cui aveva dedicato l’ultima parte della sua vita.
Per nostra fortuna, le critiche al “Libro primo” non scoraggiarono Grossman dal portare a termine il suo titanico progetto. Chi con questo libro si avvicina per la prima volta a Grossman ha una duplice opportunità. Seguire l’ordine cronologico che l’autore aveva prestabilito, ma anche scoprire Vita e destino, uno dei libri più belli che il Novecento abbia prodotto. Tutto questo nulla toglie ai meriti di Stalingrado, che restano grandissimi. La storia è la stessa, la penna è la stessa. Si ritrova intatto lo stile poliedrico di Grossman. Si ritrova la poesia che egli sa cogliere in personaggi di ogni classe. Dai contadini e soldati semplici senza istruzione alla cerchia di intellettuali e scienziati che gravitano attorno alla famiglia Šapošnikov.
«La sofferenza umana! Se ne sarebbero ricordati, nei secoli a venire? Perché le pietre degli enormi palazzi e la gloria dei generali restano, ma la sofferenza no. La sofferenza è fatta di lacrime e sussurri, di ultimi respiri e del rantolo di chi muore, di grida di disperazione e di dolore. Scompare senza lasciare traccia, insieme al fumo e alla polvere che il vento disperde nella steppa». Vasilij Grossman ha dato voce a questa sofferenza. L’ha immortalata, non solo per l’ultimo conflitto mondiale: per tutte le guerre passate, presenti e (ahinoi) a venire.