“Sulla riva del mare” di Abdulrazak Gurnah, un romanzo sull’esperienza dell’emigrazione, medaglia che ha sempre due facce
“Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Livorno 13 settembre 2022 – “Non è mai troppo tardi per leggere un buon libro”
Rubrica di recensioni, a cura dello scrittore e traduttore Maurizio Grasso.
Non sono sempre necessariamente recensioni di libri appena usciti, ma di “buoni libri”.
Oggi Maurizio Grasso vi farà conoscere “Sulla riva del mare” di Abdulrazak Gurnah
L’esilio e la memoria
L’impressione che resta alla fine di questo romanzo è di essere stati calati intenzionalmente e al rallentatore nel nucleo doloroso di un segreto. L’autore ha voluto che di questa storia risaltasse ancor più un intrinseco, inatteso ammaestramento. Perché Sulla riva del mare è soprattutto un libro che vuole insegnare; in primo luogo insegna ai suoi personaggi, di riflesso anche ai lettori che con essi sono entrati in empatia.
È la storia di due uomini di Zanzibar, di generazioni diverse, entrambi esuli in Inghilterra, sia pure per motivi differenti. Inizialmente Latif e Saleh hanno e difendono ciascuno una propria verità per così dire “familiare”; una visione non negoziabile sugli eventi drammatici che hanno spinto le loro vite a intrecciarsi, a credersi l’uno il perseguitato dell’altro. Il loro incontro li salva entrambi, non soltanto dal pregiudizio reciproco, anche dal senso di inutilità in cui le loro rispettive esistenze si stavano avvitando.
Sulla riva del mare è soprattutto un romanzo sull’esperienza dell’emigrazione, medaglia che ha sempre due facce. Da una parte il sospetto con cui si è accolti, la discriminazione che in seguito si subisce; dall’altra la nostalgia della propria terra e l’assoluta necessità di tenere viva la sua memoria e con essa le proprie radici. Il romanzo, del 2001, è stato ripubblicato in Italia (Ed. La nave di Teseo) lo scorso anno. Lo scrittore di Zanzibar (naturalizzato inglese) aveva appena vinto l’ultimo Nobel per la letteratura.
Due punti di vista antagonisti
Anche Gurnah, come il tema ricorrente delle sue opere, ha due facce. O meglio, è sul crinale tra due culture: quella delle sue origini africane e quella anglosassone che respira da decenni. Solo apparentemente queste due anime convivono in lui senza produrre lacerazioni. Quella africana non ha remore nell’andarci giù pesante sul razzismo latente o esplicito made in UK. Tuttavia il linguaggio in cui l’autore esprime il suo pensiero, il suo sottile sarcasmo, la sua saggia, superiore riprovazione è l’inglese. «Una lingua che mi abbaia contro e mi disprezza a ogni angolo di strada», fa dire a Latif. Leggere un libro di Abdulrazak Gurnah è come avere sempre sott’occhio, compresenti, due punti di vista antagonisti.
È anche un libro sull’esilio: una seconda vita che nasce come un viaggio andata e ritorno e finisce in una definitiva cittadinanza. «Non sono tornati in molti», dice uno dei due protagonisti all’altro riferendosi ai loro connazionali che partivano per Paesi lontani. Sognavano di far soldi, o studiare, per poi tornare e mettere tutto al servizio del proprio popolo. La fame, l’instabilità politica, la persecuzione etnica o tutte queste cause insieme hanno reso impossibile il ritorno a molti di questi mancati patrioti.
L’incontro voluto dal caso
Sulla riva del mare ha una forma tripartita. La prima e la seconda parte sono narrate in prima persona e con lunghi flashback, prima da Saleh e poi da Latif. Sono legati da un episodio drammatico: la famiglia di Latif ha perso la casa per un debito e Saleh l’ha avuta dopo una causa. Il caso li fa incontrare di nuovo, lontano dalla loro terra natale, in Inghilterra. Saleh finge di non conoscere l’inglese. Rachel, la signora dell’organizzazione per i rifugiati che si occupa di lui, cerca uno che parli la sua lingua. Lo trova in un’università londinese nella persona di Latif. Ecco svelati i disegni occulti del destino. Gurnah, per decenni professore di letteratura inglese, ci sta insinuando l’idea che ci sia un seme autobiografico alle radici di questa storia.
Nella prima parte, Reliquie, l’io narrante Saleh Omar si presenta come un uomo di sessantacinque anni. È stato costretto a lasciare la sua terra per motivi che il lettore scoprirà nelle ultime pagine. Vive in una cittadina inglese sulla riva del mare, ben diverso dal “caldo oceano verde” dove egli ha trascorso gran parte della sua vita. È un rifugiato ed è nel Regno Unito da pochi mesi. Non avendo alcuna attività, passa il tempo girovagando in negozi di mobili. Si capirà presto perché ama tanto quei manufatti di legni d’ogni essenza.
Saleh arriva all’aeroporto di Gatwick con un passaporto falso senza visto e con un preciso, disperato intento: ottenere asilo politico. Gli hanno spiegato che deve fingere di non conoscere l’inglese, salvo due parole: “rifugiato” e “asilo”. Si imbatte in un funzionario che cerca di rispedirlo in tutti i modi a casa. Ne avrebbe le facoltà oltre che un profondo, perverso desiderio. Quelle due parole sono un “apriti sesamo”, lo obbligano a capitolare.
Nel monologo di quest’uomo, che Saleh finge di non comprendere, c’è tutta la paternalistica superiorità di un europeo, che il vecchio conosce a memoria. Con fare corretto e affettato, perfino cortese gli vomita addosso tutti i pregiudizi secolari dei bianchi. Non capisce perché non sia rimasto nel suo Paese a godersi una tranquilla vecchiaia. Quelli come lui si muovono senza riflettere sulle ripercussioni negative che scatenano nelle società che li ospitano. Lui è un nero, appartiene all’Africa, non all’Europa. Non ha i loro stessi “valori”, non li ha pagati “nel corso delle generazioni”. Loro insomma non lo vogliono. Eccome se avevano pagato per i valori dell’Europa! Avevano pagato e basta, senza alcuna contropartita.
La seconda parte è occupata dal lungo flashback di Latif. Si prepara all’incontro con un uomo che ha usato un passaporto col nome di suo padre e di cui sospetta la vera identità. L’uomo che si è preso la loro casa e che lui definisce “assassino” della propria famiglia.
La terza parte è narrata di nuovo dall’uomo più anziano. In realtà è il suo incontro con Latif; il racconto della sua “versione dei fatti”, fatto con totale assenza di rancore. La disarmante serenità di Saleh “converte” Latif. Le ragioni familiari che sostenevano il suo pregiudizio nei confronti dell’altro si rivelano ai suoi occhi insussistenti. La pacificazione lascia intendere che nascerà un’amicizia.
Mi ha colpito una frase di Khaled Hosseini nella prefazione al suo Mille splendidi soli. Il lettore cerca in un romanzo «un senso di illuminazione, la sensazione di essere stato in qualche modo trasformato dalle esperienze dei protagonisti». Ritengo che Sulla riva del mare di Abdulrazak Gurnah abbia questa virtù rara e, aggiungerei, eroica.